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I. Aspetti gastronomici delle festività religiose nel Cremonese

Scarse sono le notizie sulle abitudini alimentari cremonesi riferite a determinate ricorrenze religiose e profane. Queste si sono perdute nel tempo quando le principali tradizioni folcloristiche sono cadute sotto la scure sia della controriforma cattolica che delle riforme Teresio-Giuseppine.

Mancano così notizie relative ai particolari cibi che probabilmente si consumavano in occasione della grande festa patronale, sia cittadina che diocesana, della Madonna Assunta il 15 agosto e tutto quanto oggi è conosciuto si limita ad alcune ricorrenze dell’anno.

A Capodanno (1° Gennaio) si mangiavano il musetto di maiale bollito e lo zampetto (oggi si preferiscono cotechino e zampone): il grugno e la zampa sono infatti le parti che il maiale usa per scavare la terra e trovare il cibo ed erano quindi ritenute di buon augurio perché avevano il valore simbolico di tenere lontane la fame, la carestia e la povertà.

1° gennaio

Capodanno

Il Carnevale a Cremona aveva inizio il 7 Gennaio, giorno dedicato a S. Cristoforo, e in questa circostanza nel Seicento si facevano benedire le focacce.

Quali fossero i dolci o i cibi in questo periodo si può dedurre dalle abitudini dei monasteri femminili registrate durante le visite pastorali effettuate dal vescovo Speciano. Si parla di gnocchi, tortelli, arrosti, tartare e torte salate.

Notizie più ricche ed interessanti si ricavano da una raccolta di memorie della prima metà dell’Ottocento. I cremonesi anche allora iniziavano i festeggiamenti il giorno di S. Cristoforo e gruppetti di giovani mascherati, con camiciotto bianco, cappelli o berretti, trombe, scope, fruste e grilli di legno, giravano per la città: “e avevano con loro, un uomo con una caretta da mano, con entro un cesto di picioli pani di miglio, che li giettavano dietro alle persone che incontravano per le vie, e chi era alle finestre o poggioli, e li chiamavano i Benedetti; e gran quantità de ragazzi che gridavano a più pottere el Vò, el Vò e questo si praticava in questo sol giorno”.

Nei monasteri e nelle case signorili si offrivano dolci e denaro a compagnie di giovani che, vestiti alla spagnola, ballavano la moresca accompagnati da suonatori. Per le strade della città passavano carri e carrozze da cui si lanciavano sulla folla coriandoli, confetti e piccoli dolci.

7 gennaio

S. Cristoforo e il Carnevale

L’inizio della Quaresima era scandito dal suono della campana maggiore del Torrazzo, la mezzanotte di martedì grasso. Il custode del Torrazzo doveva “dar segno col Campanone che passata la meggia notte non si può magnar né grasso né magro che non vuol rompere la quadragesima e il digiuno”.

Il primo giorno di Quaresima era contrassegnato dal digiuno, finito il quale tutti dovevano astenersi “dal mangiar carne o altro cibo che aveva origine da carne, come uova, latte, formaggi e burro” e si poteva derogare a questa prescrizione solo per gravi motivi di salute e con l’autorizzazione del medico curante o l’approvazione scritta di un sacerdote: ma il mangiar di grasso doveva farsi di nascosto anche dei domestici e dei familiari.

Questo l’elenco dei cibi consumati giorno per giorno, nell’arco della settimana al tempo della Quaresima dalle monache benedettine di S.Caterina di Soncino: “Vitto ordinario nel tempo della Quadragesima:

- La domenica si fa delli ceci in minestra, per pietanza quattro libre di pescaria, la sera della pannata.

- Il lunedì minestra di verze ovver spinacci, pietanza delle fritole.

- Il martedì fagioli, pietanza quattro libre di pescaria o veramente fava rostita.

- Il mercordì si fa minestra di fogliate con l’agliata, per pietanza delli gambari, ovver ranzoni et insalata.

- Il giovedì si fa minestra di ceci, per pietanza quattro libre di pescaria.

- Il venerdì della panata, per pietanza delle noci overo fava rostita.

- Il sabato minestra d’herbe overo lumache et insalata. La sera non si da niente di colazione”.

Nessuno poteva vendere cibi proibiti, solo in pochi casi carne di vitello per gli infermi, ma non in piazza bensì in botteghe e luoghi chiusi, e tutto questo con licenza scritta.

Hosti, Tavernari, Albergatori e qualsivoglia altri che soglion dar da mangiare non vendano, ne diano, ne tengano da vendere cibi proibiti (anco a forestieri et passeggeri) nemmeno gliene mettano in tavola ne le cuociano o facciano cuocere senza simil licenza in scritto. Ne permettano che d’altro luogo siano portati cotti et conditi in casa sua, ne in altro luogo suo, nonché mangiati, ne posti in tavola”.

Quaresima

Il 15 gennaio S. Mauro era ricordato distribuendo dei piccoli pani benedetti che venivano conservati e mangiati a bocconcini quando si era ammalati. Luciano Dacquati, ricordando il proverbio i michìin de San Maurìin / i fa stàa benìin, a commento scrive che se non fanno guarire del tutto recano comunque giovamento a chi li usa .Questa usanza si conserva solo a Codogno dove i michìin vengono distribuiti ai fedeli nella chiesa dedicata alla Beata Vergine di Caravaggio, sulla circonvallazione.

15 gennaio:

S. Mauro

Sant’Antonio abate, protettore degli animali e delle stalle, era nelle campagne il santo più conosciuto e venerato; nel giorno a lui dedicato non si mangiava carne per rispetto agli animali che venivano lasciati in riposo e onorati; i parroci andavano nelle cascine a benedire le stalle.

Come tutte le feste importanti anche questa aveva riflessi gastronomici: il piatto tipico era la chisoola onta, una focaccia condita con lardo e strutto e fatta cuocere sotto la cenere del camino (Per Sàant Antòni chisulèer, / chi mangia mìia la chisòola / ghe croda in testa el soulèer), ma anche le frittelle cotte in abbondante strutto, la “sbrisolosa”e i”biligòt” (castagne secche fatte bollire in acqua e addolcite con zucchero o miele).

Fra i tanti riti casalinghi, Luciano Dacquati ne ricorda uno in particolare, una sorte di “comunione” che univa gli uomini e gli animali: nella casa padronale si faceva un pane di forma molto allungata, con lo strutto, lo si tagliava in tante fette quanti erano gli animali presenti in cascina; il pane veniva collocato sulla tavola apparecchiata come per le grandi occasioni e il bambino più piccolo della casa lo benediceva; poi le fettine di pane venivano distribuite agli animali.

Il pranzo era particolarmente curato, come nelle occasioni di festa, ma, come già detto si tendeva ad evitare la carne, si preferivano gli gnocchi di patate oppure i tortelli di zucca, i”blisgòon” del Casalasco. Nella parte orientale della provincia c’era la tradizione di versare nel pastone delle mucche da latte parte dei tortelli per preservarle dalle malattie. In alcune cascine si regalava alle famiglie più povere, perché celebrassero anche loro la festa del Santo, la cosiddetta “pulèenta infasulàada”, cioè la polenta cotta con i fagioli. Si recitavano, davanti all’immagine del Santo questi versi scherzosi “Sàant Antòni de la barba bianca, mè mài i turtèi, e tè gnàanca” (S.Antonio dalla barba bianca io mangio i tortelli e tu niente!). A Volongo, nel campo sportivo, ad Ostiano nella contrada dei Molini, a pochi metri dal fiume Oglio, si prepara ancora oggi un grande falò che, una volta acceso, in pochi secondi brucia la vecchia, posta 15 m più in alto. Per riscaldare il pubblico numerosissimo si distribuiscono ceci caldi e vin brulè.

A Torricella del Pizzo, piccolo centro della campagna cremonese sulla sponda sinistra del Po, famoso per la produzione del salame col filetto, in occasione della festa di S. Antonio da anni si organizza la festa del “pipen”, del piedino di maiale lessato che viene servito con contorno di salse e mostarde.

17 gennaio: Sant’Antonio

San Paolo è detto il santo dei segni per il “segnale di fuoco” che lo colpì sulla strada di Damasco e lo convertì al cristianesimo. La credenza popolare lo riconobbe come il santo che sa dare previsioni di buon o di cattivo tempo per tutto l’anno, ma anche di fidanzamenti e matrimoni per le ragazze in età da marito.

Nei secoli passati, il mattino del giorno a lui dedicato, gli uomini, vestiti con una lunga camicia bianca e uno spadone in mano si recavano nella chiesa di S. Paolo (distrutta nel 1805, sorgeva nella piazza che ancora oggi porta il suo nome) a pigliare gli gnocchi. Già nel Seicento il rito era caduto in disuso ed era stato sostituito da una offerta di pane ai poveri della parrocchia.

25 gennaio

San Paolo

A Pizzighettone si festeggia il patrono, San Bassiano, con una fiera a lui dedicata. E’ tradizione cucinare “la trippa de San Bassian” e acquistare i filsòn, castagne cotte al forno e infilate a mo’ di collana.

19 gennaio:

San Bassiano

Alla fine di gennaio la tradizione colloca il periodo più freddo dell’anno: “i giorni della merla”, così chiamati perché una merla, uccello allora di colore bianco, si rifugiò in un camino per ripararsi dal gelo particolarmente intenso; il tepore la salvò, ma le sue penne per il fumo divennero definitivamente nere.

Ma altre leggende cremonesi, che hanno in comune il grande freddo che fece gelare il fiume Po, si riferiscono invece a tragici annegamenti per la rottura della lastra di ghiaccio durante sfortunati tentativi di attraversamento (e “Merla” sarebbe il nome di una giovane, di una cavalla, di un cannone…).

I riti della merla hanno poco o nessun carattere religioso: ci si limitava a una funzione pomeridiana in chiesa e, in cascina, al rosario recitato nel chiuso della stalla.

Ancor oggi, ed in particolare nella parte occidentale del Cremonese lungo l’Adda e nel Lodigiano, sulla riva opposta, si festeggia la Merla con canti alterni dalle due sponde del fiume, con l’accensione di falò sulle piazze o sugli argini, distribuzione di vin brulè, “biligòt” e castagnaccio. Sulle tavole venivano portati cibi adatti a combattere il freddo, come il cotechino con le verze.

30 e 31 gennaio e 1° febbraio: i giorni della merla

San Biagio è ritenuto protettore della gola (risanò miracolosamente un bimbo cui si era conficcata una spina di pesce in gola) e nella giornata a lui dedicata ancora oggi nelle chiese viene benedetta la gola con due candele incrociate. Per tradizione veniva conservata una parte del dolce consumato a Natale (in passato si trattava della torta margherita o della torta paradiso, poi lentamente sostituite dal panettone), per mangiarne un pezzetto, a digiuno, la mattina del giorno di S. Biagio.

3 febbraio

San Biagio

Il giorni di Sant’Apollonia si svolge a Rivolta d’Adda (dove, nella chiesa parrocchiale, si conserva una reliquia della santa) una grande fiera, tra le più importanti della provincia. Ancora oggi, come nell’Ottocento, si gustano i piatti della tradizione: trippa, polenta e salamelle, vin brulè. Anche a Cremona la santa godeva di un grande culto popolare: il 9 febbraio si benedicevano i denti mediante l’imposizione della mascella di santa Apollonia, un tempo conservata in S. Bartolomeo (chiesa, ora abbattuta, che sorgeva in corso Vittorio Emanuele) e poi trasportata in san Pietro. Nel culto popolare la santa, che venne martirizzata mediante l’estrazione dei denti con tenaglie arroventate, è collegata alla caduta dei denti dei bambini ed è protettrice dei denti sani. Quando un piccolo perde un dentino da latte lo posa su un piattino e la mattina seguente trova un dolce, qualche caramella o una moneta in dono dalla santa.

9 febbraio

Santa Apollonia

Un tempo, nelle campagne, si raccomandava di non raccogliere verdura nell’orto da portare in casa né erba nei campi da dare ai polli, né foraggio per il bestiame perché dall’erba sarebbe uscita una biscia. La mattina poi, prima di andare in chiesa, le donne passavano dal pollaio, raccoglievano tutte le uova e le deponevano dinnanzi all’altare o alla statua della Madonna Immacolata (la cui festa ricorre l’8 dicembre), chiamata famigliarmente anche “ la Madòona dèl bis” (del serpente) perché raffigurata nell’atto di schiacciare sotto il piede un serpente, simbolo del peccato, recitando questa filastrocca: “Madòona dèl bis / Madòona dèl o’of, / purtèeme vergo’ta, / de bèl e de no’of” (Madonna del serpente, Madonna dell’uovo, portatemi qualcosa di bello e di nuovo).

Il 25 marzo, soprattutto nel Casalasco, era detto “la Madòona dèi famèi” (dei famigli), cioè di quei ragazzi di povere famiglie che venivano “affittati” agli agricoltori per aiutarli nel lavoro dei campi in cascina. In quel giorno i famèi, liberi dal lavoro, si recavano al santuario della Fontana e spendevano in dolciumi e divertimenti la paghetta che ricevevano proprio per la loro festa.

25 marzo

L’Annunciazione

Il giovedì santo si mettevano a mollo in acqua, in due diverse zuppiere, fagiolini dell’occhio e lenticchie e dopo che si erano così ammorbiditi, il venerdì santo si cucinavano in un soffritto di cipolle fresche ed olio. Ai rintocchi del mezzogiorno si versava nella pentola di cottura della buona conserva di pomodoro ed erano così pronti da mangiare subito, ben caldi,dopo averli versati nelle scodelle in cui si intingeva il pane biscotto.

Il giovedì santo, inoltre , si preparavano dolci speciali che avevano come base le uova raccolte nel periodo della Quaresima e conservate annegate nello strutto perché si mantenessero fresche.

A Casalbuttano per le bambine si facevano le “fantine”, bamboline di pasta dolce decorate con confettini perlati mentre per i bambini si preparavano in modo analogo dei cavallini.

La cena del venerdì consisteva in due uova sode per gli adulti, una per i bambini, con contorno di radicchi di campo lessati e conditi con olio e aceto. Si diceva che questa consuetudine proteggesse dal morso dei serpenti velenosi.

In alcune zone del Cremonese si ripeteva la tradizione dell’Annunciazione portando in chiesa le uova appena raccolte nei pollai.

Il sabato santo, dopo aver trascinato per le strade polverose le catene annerite del camino fino a farle lucidare (sgùura), i ragazzi tornavano a casa a metà pomeriggio e come premio trovavano le uova colorate “i òof culuràat”, uova di gallina fatte bollire insieme ai fondi di caffè, ad erba verde, o a carte colorate.

Ricevuto il premio i bambini andavano sul sagrato a giocare a “scuséta” (piccola scossa): si giocava in due, ognuno teneva in mano un uovo e lo faceva urtare con la parte appuntita contro l’altro. Chi aveva l’uovo incrinato per primo doveva cederlo all’altro giocatore. Questa usanza costituisce ancor oggi un motivo di grande attrazione a Fiorenzuola, in provincia di Piacenza, a pochi chilometri da Cremona. Da tempo si organizza un torneo chiamato “Punta l’ov” al quale, il lunedì di Pasqua, partecipano centinaia di persone.

A Pasqua oggi si mangiano arrosti e si pongono in tavola uova sode sbucciate, tagliate a metà e presentate con una fogliolina di ulivo benedetto nel mezzo.

Nei secoli passati, come racconta il Bresciani, la domenica di Pasqua ogni famiglia mandava a benedire nella propria chiesa parrocchiale uova, agnelli ed altri cibi e la domenica in Albis la confraternita della SS. Annunciata, un gruppo mariano che gravitava attorno alla parrocchia di S. Vincenzo, aveva la consuetudine di cuocere un vitello e di servirlo insieme ad uova, pane e vino ai poveri mendicanti di S. Alessio.

Il lunedì dell’Angelo, detto anche il giorno di Pasquetta, si gustavano sui prati, all’aperto, salame, uova sode, insalata e i dolci speciali (fantine e cavallini) preparati il giovedì per i bambini di casa. In alcune località della provincia (come per l’Annunciazione) non si doveva raccogliere né un fiore né un filo d’erba perché altrimenti, si diceva, sarebbero entrate in casa delle bisce. La tradizione delle scampagnate deriva da una più antica usanza ricordata dal Bresciani: tutti i pellegrini, dopo la messa in Cattedrale si recavano alla Pescheria (oggi via Platina) a ricevere la benedizione del cardinale vescovo e poi si dirigevano, accompagnati dalla confraternita di S. Rocco con trombe e musica, fino al fiume Po, dove si imbarcavano diretti ai luoghi santi.

Periodo pasquale

Nel Quattrocento il lunedì dopo Pasqua si correva a cavallo il Palio di S. Quirico che, partendo dalla chiesa dedicata al santo (allo sbocco di via Palestro con il viale Trento-Trieste) giungeva alla chiesa di S. Vincenzo, percorreva corso Campi, proseguiva per Santa Sofia e, da piazza Piccola, oggi Stradivari, si immetteva in piazza Duomo: il vincitore era premiato con un maialino e un gallo. Nel 1441 il duca Francesco Sforza spostò questo palio il 25 ottobre per ricordare il suo matrimonio con Bianca Maria Visconti e il premio diventò di 5 braccia di damasco cremisino. Altri palii si disputavano in estate.

A Cremona, nella chiesa di S. Tommaso si benedivano i fagioli da seminare negli orti; per i cremonesi famosi nell’antichità per essere grandi produttori e grandi consumatori di fagioli (Teofilo Folengo nel Cinquecento consigliava “si mangiare cupis fasolos vade Cremonam” – se vuoi mangiare fagioli vai a Cremona – mentre il Tassoni appelava i Cremonesi “mangiafagioli”) questo doveva essere un rito importante.

25 aprile

San Tommaso

Il giorno dell’apparizione della Vergine di Caravaggio, nelle chiese di S. Carlo e S. Eligio si dispensava pane benedetto che si diceva avesse il potere di guarire i febbricitanti (una simile usanza è testimoniata anche per la chiesa di S. Agostino in occasione della festa di S. Nicola da Tolentino. il 10 settembre.

26 maggio

Nella ricorrenza di San Giovanni negli orti si raccoglievano cipolle ed aglio; era anche il giorno di raccolta delle noci ancora avvolte nel loro verde mallo, da impiegare per la preparazione del nocino.

24 giugno

San Giovanni

San Pietro, patrono di Cremona, costituiva l’occasione per una grande fiera (la tradizione ancor oggi sopravvive, sia pure “in formato ridotto”, sotto forma di un mercato ambulante), dove non mancavano le bancarelle dove era possibile acquistare “ciballo”, “tiramolla”, croccanti, zucchero filato e granite.

L’antica fiera era raffigurata sul primo sipario del teatro Filodrammatico di Cremona, opera ottocentesca del pittore Giovanni Motta, ora conservato al Museo civico e sottoposto a restauro nel 1969 da parte del pittore Sereno Cordani. Elia Santoro, recensendo il dipinto su «La Provincia» del 29 giugno 1969, fa notare - tra la folla di nobili e popolani stretti attorno a bancarelle e giocolieri sulla piazza della chiesa di S. Pietro e nella via Cesari degradante verso l’odierno corso Vittorio Emanuele II – la presenza di bambini “che reggono lunghe canne su cui sono confitti grossi cialdoni a forma di ciambella, trofei detti pampare o castelli”; si tratta di oggetti apparsi la prima volta nel 1214 per ricordare la vittoria dell’anno precedente dei cremonesi sui milanesi a Castelleone e divenuti in seguito simboli dell’importanza sociale del fanciullo che li riceveva in dono o del donante. Scomparvero solo nel 1914.

29 giugno

San Pietro

Nei pressi della chiesa di Santa Maria Maddalena, in quella che oggi è via XI febbraio, anticamente si disputava il palio dell’oca. Vinceva 2 braccia di panno cremisino chi riusciva, passando al galoppo, ad afferrare al volo per il collo un’oca non si sa se legata ad un alto palo detto majo o se interrata (come si usava in Spagna in quel tempo) con il collo fuori.

22 luglio

Santa Maddalena

Feste analoghe, con identico premio, si svolgevano nel mese di agosto in altre parrocchie cremonesi: cambiava però il povero animale che doveva essere afferrato dai partecipanti al palio: il 7 agosto era la volta di un coniglio presso la chiesa di S. Donato (tra via Sicario e via Patecchio); il 10 agosto toccava ad un gallo vicino alla chiesa di San Lorenzo (tra via Gerolamo da Cremona e via San Lorenzo) ed infine, il 24 agosto, un tacchino davanti alla chiesa di San Bartolomeo (tra corso Vittorio Emanuele, via Ponchielli e via Tribunali). Ma nel 1575 San Carlo Borromeo eliminò queste ed altre feste di tradizione pagana, poco compatibili con l’occasione religiosa, fonti di bagordi, di disordini popolari e di pericolo per l’incolumità della gente.

Palii agostani

Per San Ròch se fa i gnòch, recita un antico proverbio cremonese. San Rocco era il protettore della corporazione dei Fruttaroli, limonai e pollaioli e gli iscritti, il giorno della sua festa, dovevano recarsi nella chiesetta a lui dedicata, fuori porta Mosa, per rendergli omaggio. Nella seconda metà del secolo scorso erano famosi “i gnòc cun la sàbia”che si andavano a mangiare da Bùrtul, nella sua casotta - osteria lungo la riva del Po.

In alcune parrocchie della provincia, soprattutto nel Cremasco, si procede alla distribuzione di pani benedetti, i “michì da san Roch”, per ricordare l’episodio del cane che, secondo la leggenda, portava il pane al Santo che, colpito dalla peste, era stato isolato in un bosco sulle rive del Po a Sarmato, nel Piacentino.

16 agosto

San Rocco

Il giorno dedicato alla commemorazione dei defunti era caratterizzato nella tradizione da un piatto tipico, i fagiolini con le cotiche; che a Cremona gli osti offrivano in scodelle fumanti ai loro clienti che tornavano infreddoliti dalle visite al cimitero. Sempre per combattere il freddo, erano in uso anche zuppe di ceci, di fave, di fagioli.

C’era anche un dolce: gli “usèt de mòort”, biscottini a forma di osso, di colore bianco e molto duri, caratterizzati dalla presenza nell’impasto di albume d’uovo montato a neve ; si preparavano in casa, mentre oggi si preferisce acquistarli dal pasticciere. Queste tradizioni sono ricordate da alcuni versi che Pier Luigi Lanzoni ha dedicato al mese di Novembre: “stagiòon de cùdeghe, stagiòon de fasulìin,/ de màs de grisantèmi e usèt de mòort; / cui primi frèt, l’aria de’n viulìin / la cur so per en ceel bàs smòort (stagione di cotiche, stagione di fagiolini, di mazzi di crisantemi e di “ossetti di morto, coi primi freddi l’aria di un violino risuona nel cielo basso e smorto).

2 novembre

giorno dei Morti

L’11 novembre era una data importante nel mondo agricolo perché segnava l’inizio o la fine dei contratti di conduzione dei campi ed era quindi momento, più che di pranzi particolarmente ricchi, di traslochi da un’azienda a un’altra delle famiglie contadine.

Nel Seicento i contadini dovevano portare ai padroni dei fondi agricoli le onoranze, costituite da capponi e salame. Ma San Martino è collegato anche al vino nuovo.

Nelle osterie cittadine si faceva baldoria, si spillava il vino nuovo dalle botti per il primo travaso e lo si gustava con gioia insieme a castagne lessate o arrostite.

11 novembre

San Martino

Santa Lucia era attesa con trepidazione dai bambini cremonesi che in passato, al loro risveglio, trovavano nel “piatto di S. Lucia”: un’arancia, qualche castagna secca, uno o due torroncini e l’insalatina, cioè una mescolanza di caramelle di zucchero (a forma di ravanelli, di rape, di carote, ecc.) avvolte in carte colorate dai bordi frastagliati a frangetta. La sera tra il 12 ed il 13 dicembre i bambini preparavano fieno e acqua per l’asinello, biscotti e caffelatte per la santa (talvolta sostituiti da un più robusto corroborante: un bicchiere di vino ed un pezzo di pan biscotto…). Oggi il “piatto di Santa Lucia” viene robustamente integrato con giocattoli di ogni genere, talora assai costosi ed inoltre la Santa è minacciata nel suo ruolo di dispensatrice di regali da Babbo Natale, per la tendenza ad uniformarsi a tradizioni altrui sotto la spinta commerciale dei mass media.

13 dicembre

Santa Lucia

Le festività natalizie sono certamente quelle più celebrate dal punto di vista gastronomico, anche se la “partenza” deve avvenire nel rispetto del precetto religioso dell’astensione dalle carni: la Vigilia è, come noto, giorno di magro. Per antica tradizione, racconta Giuseppe Bresciani nel suo Diario, si faceva del pane grosso detto il pane di Natale e li speciali fanno il pan speciato così detto per le molte speciarie che gli mettono dentro. Si augura le buone feste a parenti e amici, sì in voce come in scritto. Li capi di famiglia alla sera fanno la benedicione con acqua santa nelle loro case, puoi mettono sopra il fuoco il più grosso legno che vi sii in casa e quello addimandano il capo dono, li fanciulli vanno alle porte cantando orazioni in lode della Santissima Natività, per aver della fugaccia, e dopo cena si cava la ventura nascosta ne maroni, o castagne cotte e ciò fassi dal più piccolo di casa, il primo che si estrae a sorte è del povero, e se la ventura o il denarosi è dentro, il capo di famiglia lo piglia per sé e la mattina nel uscir di casa il primo povero che incontra a quello dà il denaro ritrovato nella castagna e non essendo in quello del povero se ne dà una a ciascuno chi è in casa e a chi la tocca sta allegro.

L’usanza del “capo dono” si è tramandata fin quasi ai nostri giorni. Nel Casalasco, scrive Luciano Dacquati, la sera della vigilia i vecchi mettevano sul fuoco una mezza pianta priva di corteccia “el sòch de Nadàal” e intanto che si cenava se ne godeva il tepore.Continuava a bruciare lentamente e il mattino se ne raccoglieva la cenere che veniva , in maggio,cosparsa sui graticci su cui si allevavano i bachi da seta.

Oggi si preparano tortelli di zucca (la vigilia è giorno di magro), tortelli di ricotta o gnocchi che vengono benedetti dal capo famiglia e lasciati poi sulla tavola perché, durante la notte possano mangiarne anche i parenti defunti a testimoniare che l’affetto per loro e il loro ricordo son sempre vivi nel cuore dei famigliari. Altri piatti cremonesi sono il”bisèt” cioè piccole anguille marinate o “truus”, rocchi di anguilla di grandi dimensioni e “ambulìna”, pesciolini minuti fritti e conservati in carpione. Ma non devono assolutamente mancare le lumache: le corna alludono alla discordia e perciò vanno sepolte nello stomaco per prepararsi alla pace del Natale.

24 dicembre

Vigilia di Natale

Il Natale è la festa che porta con sé un’atmosfera di gioia, di pace; quella in cui ci si scambiano doni ed auguri; quella che vede il riunirsi conviviale nell’intimità della famiglia per gustare piatti importanti della tradizione.

Questo un menu tipico di Cremona:

- antipasto di salumi misti (coppa, pancetta, salame, prosciutto, culatello), giardiniera, carciofini e funghi sott’olio, ...

- marubini ai tre brodi

- cappone ripieno e lessi misti con mostarda di Cremona, salsa verde, salsa di rafano

- tacchino ripieno al forno con patate arrosto e insalata

- panettone o pandoro

- cestino di frutta fresca e secca

- torrone

25 dicembre

Natale