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Prose

Dalle pagine scelte emergono con vivacità l’animazione della fiera in un santuario della campagna cremonese, le tradizioni di una piccola comunità il giorno dell’annunciazione, i cibi e le feste di città e campagna, l’emozione e l’ingenuità di un bambino nell’attesa dei doni di Santa Lucia, l’impegno in cucina di una famiglia benestante di città per onorare le feste.

La Fiera di Ariadello, già cantata nei versi di Edoardo Icilio Ginestri, è descritta anche in una brillante prosa di Valter Venchiarutti.

La Fiera di Ariadello

Il cibo: […] Le vivande che con sporte, cesti e fagotti venivano portate per la colazione sull’erba rispondevano a due caratteristiche: semplicità… e praticità. Infatti il cibo doveva essere consumato freddo, senza per questo perdere il gusto. Le uova costituivano l’elemento base nelle varianti: uova sode, frittate, torta, zabaione. Tale alimento conservava intatta una valenza fortemente rituale. L’uovo è simbolo della rinascita, dell’eterno ritorno, si collega al rinnovamento, alla bella stagione, fino a diventare il distintivo stesso della Pasqua… Non mancava mai l’accoppiata of cot e salam nustrà opportunamente accompagnati con zermòi de cicoria tènera, il tutto innaffiato da ‘n bon fiaschèt de chél rus. Il pane poteva essere sostituito dal pàn biscot e da fèti de pulenta freda che si insaporivano con friàtadi, sardèli, sardini, sigùt (salamelle d’asino).Il tutto si concludeva con il dolce casalingo, la turta de Riedèl, portato ‘n deel parol; una sorta di torta margherita fata cos suta la sèner e li brasi del camén mentre i più raffinati compravano ‘l bisulà, tipica ciambella di Soresina.

Per molti quello che alcuni definivano ‘l merènden finiva col trasformarsi in una vera e propria smaiasàda (pantagruelica abbuffata). […]Ambulanti, dolci e giocattoli: […].elaborata [era la preparazione], interamente svolta in piazza, del più ricercato tra i dolci della fiera: il cicaro filato o tìra-mola

Nel parulòn, sopra la furnasèta a carbòn cuoceva el pastòn fatto con zucchero, glucosio e melassa di barbabietola (oggi quest’ultima è stata sostituita dalla canna da zucchero). Quando l’intruglio raggiungeva la giusta gradazione (di norma 140 gradi) lo si rovesciava so la piastra, una lastra di marmo: per far abbassare la temperatura, ‘el se spantegàa cu la curtélina e el se catàa so cu la curtèla , spatole speciali di formato rettangolare, piatte e senza filettatura. Appena la miscela era scesa intorno agli 80 gradi, come una matassa veniva appesa al gancio per la caratteristica operazione di tìra-mola.

Era un vero spettacolo ammirare la maestria che Bagunga [uno degli ambulanti] ed i suoi colleghi sfoggiavano nel tirare il cicaro; è uno dei ricordi che conservo con maggior nitidezza.

Di norma due uomini si alternavano nell’operazione, al fine di permettere il ricambio. Lo spettacolo indubbiamente appariscente non era indolore; l’alta temperatura favoriva il formarsi di vesciche sul palmo delle mani. Un sospetto insinuante, fomentato dalle premure materne, tormentava i più golosi. Secondo la versione dei bumbunèr il cicaro scottava e i lavoranti i se bufàa en so li ma e le raffreddavano nell’acqua. Altri, detrattori e igienisti, sostenevano che per fal dientà pusèe saurìt i se spudàa en so li mà e i la fàa so cu li mùschi, beffandosi di ogni norma profilattica.

La lavorazione manuale del cìcaro richiedeva destrezza, più si tirava e più la treccia lievitava. Quando però smetteva di crescere e iniziava a filare giungeva il momento di tagliarlo con le forbici in tipiche stecche a forma attorcigliata. I buongustai preferivano el masìs (il massiccio), l’ultimo pezzo del pastone, non tirato ma venduto a pezzetti.

Allo stesso modo con zucchero, glucosio e coloranti vari si procedeva a preparare li canélini de sucher. Nelle preferenze degli estimatori seguivano gli stracadènt (biscotti duri con mandorle), el turòn de la féra, mai tant fèn (venduto) a cinch franch el tòch, il tibàlo o cibàlo, turòn bianch e mòl cu li galèti (ovviamente sconsigliato a tutti coloro che portavano la dentiera), ‘el sucher a ‘el (a fioch). In vendita si trovavano una infinita varietà di dolciumi per tutti i gusti e tutte le tasche; cicamare en bachèt, crucànt, strìinghi de rigulìsia, bumbén, mentini, brut-e-bòn, baldes, lechèt, ciapéli, gìgiuli e gìgiulòt. Una gamma tale da far ingolosire non solo i piccini, tant’è che i giovanotti avevano l’abitudine “de fa le scartusén dei bumbén per cuntentàa la murusa”.

Valter Venchiarutti

Sandro Talamazzini, autore di numerosi libri per grandi e per bambini, di documentari per il cinema e per la televisione, è stato sempre impegnato a fissare con le parole e con le immagini le tradizioni, i personaggi, i mestieri, i paesaggi, di Cremona e del suo territorio, molti dei quali oggi non ci sono più.

Sandro Talamazzini

…C’è, a Cremona, una piccola chiesa di mattoni rossi, dedicata a Santa Lucia… Una volta all’anno, il tredici di dicembre, la chiesetta diventava, per noi bambini, un luogo di mistero e di ansia perché c’era, là dentro, e c’è tutt’ora, in una nicchia protetta dal cristallo, la statua di Santa Lucia, una giovane martire che regge, in un piattino, i suoi occhi, strappati dai carnefici di un’assurda persecuzione. Quando vi andavo con mia madre, la vigilia della grande festa, non potevo vedere quegli occhi perché posti troppo in alto, ma li immaginavo di un bel azzurro intenso, con le pupille celesti. Quello che non riuscivo a capire però era il fatto che una Santa, senza gli occhi, potesse andare con il suo asinello, nella notte più lunga e più buia dell’anno, per tante case e per tante scale, a portare i suoi doni: nello stesso tempo non riuscivo a capire come mai Lucia , così povera e così sola, potesse soddisfare tanti bambini me compreso. Eppure, la mattina del tredici dicembre, la tavola di casa mia, ricoperta per l’occasione d’una bianca tovaglia ricamata, era sempre piena di regali e il fieno, che avevo messo in un angolo la sera prima, non c’era più. Ed anche il secchiello dell’acqua era vuoto, segno evidente che l’asinello, scendi di qua e sali di là, aveva sentito fame e aveva avuto sete. Mi sembrava di vivere una favola e persistevo nel credervi, anche se Alcibiade faceva di tutto per convincermi che era stata mia madre a comperarmi quei doni, con i soldi del genitore, e che a lui, infatti, poiché suo padre era disoccupato fisso, Santa Lucia portava solo qualche dolce, con le noccioline e gli aranci. Io non gli volevo credere e gli dicevo che questo accadeva e sempre era accaduto perché la sua famiglia abitava al terzo piano e fin lassù, con tutte quelle scale di beole malmesse, l’asino non poteva salire, men che meno il carretto. Allora lui si metteva a ridere , e diceva che i Santi, quando vogliono, possono anche volare.

 

Lucia Zagni, insegnante, autrice di un testo fondamentale per l’insegnamento della psicologia, ha recentemente pubblicato un libro di ricordi Passato remoto… ma non troppo in cui descrive il suo passato, fatto di rapporti personali e famigliari vivacissimi. Un capitolo è dedicato a Le tradizioni culinarie dei giorni festivi: ne riporto alcune:

Lucia Zagni

La Vigilia di Natale dovrebbe essere di magro (e digiuno) anche oggi, mentre, come è risaputo, vengono preparati, in molte parti, famosi cenoni. In casa mia si era osservanti a metà: a mezzogiorno si mangiava poca cosa; alla sera si preparava una cena di magro, ma raffinata e completa: c’era un primo di pastasciutta, un secondo di pesce e poi panettone, torrone, caffè col rum. Il pesce era il piatto eccellente, perché trattavasi di orate o cefali ai ferri, cotti al fuoco del camino. In qualche caso il pesce di mare era sostituito dal pesce di fiume altrettanto nobile: il luccio lessato, arricchito da contorni vari. La pesèera Marietta di via del Sale lo riservava per noi, quando faceva il giro settimanale con la sua carriola. C’erano dei magnifici lucci una volta nel Po; ora non più, in quanto gli scarichi e i pesticidi usati in agricoltura hanno reso l’acqua del fiume una mistura di veleni che il pesce migliore non riesce a sopportare.

La sera della Vigilia si giocava a tombola e poi ad un vecchio gioco chiamato “farinaccio” o “campana e martello” e del quale, pur avendo conservato i pezzi (dadi e cartelle), né io né mio nipote riusciamo a ricostruire le regole.

Il primo dell’anno era di rigore lo zampone con le lenticchie, perché, secondo la nostra tradizione, sono di buon auspicio. Guai finanziari in vista, se uno mangia del pollame, perché i gallinacei, razzolando, spargono in fuori, mentre il porco, col grugno, raccoglie; e poi le lenticchie, perché simboleggiano le monete.

Per Carnevale si friggevano in famiglia cestoni di lattughe, che andavano in parte distribuite e in parte consumate in casa per diversi giorni. Tutta la famiglia era impegnata nella preparazione: impastare, tirare la sfoglia sottilissima erano compiti di Mammone o di Isa; preparare i singoli pezzi con la rotellina trinciante poteva essere compito della zia, o anche mio (bassa manovalanza). La frittura, fatta al camino, nello strutto, era ancora officio di Mammone, che sola poteva giudicare il punto di cottura eccellente, giudicando il prodotto dal colore. E mentre Mammone eseguiva la frittura, il rito contemplava che una persona preparasse le successive in un cartoncino, mentre un’altra disponeva quelle cotte in una delle ceste opportunamente predisposte, con fondo di carta sfrangiata a colpi di forbice; e una terza passava uno spolvero di zucchero vanigliato a velo da un setaccio dalla trama fitta di baluginii dorati

In Carnevale si preparavano anche le “frittole”, cioè le frittelle che esigevano una fatica prolungata per rimestare la pastella di uova, farina, zucchero e burro: operazione fatta rigorosamente a mano, sedute, con il recipiente trattenuto tra le ginocchia. Lo strumento per “menare” la pasta era “la canéla de la pulèenta”. Ci voleva molta forza nelle braccia e l’operazione veniva ripetuta diverse volte, a intervalli, lasciando riposare la pasta al freddo, ricoperta da un telo, finché il tutto non venisse giudicato pronto per la frittura; ed era quando, girando la “canéla” si facevano delle grosse bolle d’aria e l’impasto, scoppiando, pareva che facesse le boccacce. L’operazione poteva richiedere due giorni, ma tutto ciò faceva ottenere delle frittelle grosse, gonfie e rigorosamente vuote. La frittura si concludeva rapidamente, per fortuna, perché il prodotto andava consumato caldo.

 

Un cremonese famoso (scrittore, giornalista ed enigmista) recentemente scomparso, Giampaolo Dossena, ha dedicato molti dei suoi scritti alle tradizioni gastronomiche cremonesi. Abbiamo scelto questo.

Giampaolo Dossena (1930-2009)

[ I piatti della tradizione]

Un lunario paesano presiede alla celebrazione di questi semplici riti gastronomici. I prestinai regalavano una volta ai loro clienti le coste, specie di dolce secco, nel giorno di San Sebastiano, il 20 gennaio. Il maiale lo si uccide ancora attorno alla festa di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio. E con il sangue del maiale si fa prima di tutto la turta. La turta la si fa anche con il salame d’oca cotto con farina. I paesi sulla riva sinistra del Serio celebrano in una delle domeniche di quaresima la festa delle frèciule, frittelle impastate di farina, cotte nell’olio e spolverate di zucchero.

E piatti ricorrenti, stagionali, sono il nusèt, polpettone di cavoli e pane grattugiato, le ciacere, bucce di rape fritte, i vérs coi solèch, cavoli fritti in pentola coperta e soffocati. Nei tortelli di zucca, la zucca tagliata a pezzi grossi viene cotta al forno, prima di essere macinata, unita ai soliti amaretti ridotti in polvere, e alla classica mostarda sminuzzata. Alla tradizione più nobile appartengono i marubini, ravioli di manzo brasato e arrosti, formaggio, uova, noce moscata, spezie e cervella: o midollo di bue e prezzemolo tritato, secondo le zone.

Poi c’è il gran monumento finale della tavola cremonese. Il torrone. Costruito per la prima volta nel 1441 a celebrazione del matrimonio fra Bianca Maria Visconti, signora di Cremona, e Francesco Sforza. Lo costruirono, a imitazione del torrione, la più alta torre campanaria d’Italia, il Torrazzo, solerti dolciari cremonesi, impastando miele, bianco d’uova e mandorle tostate. Adesso il turòn precede anche il turàss nella trilogia delle grandi specialità di Cremona. Chiudono i tetàss, che non c’entrano con la gastronomia, ma con l’architettura forse sì.

 

Le tradizioni di una piccola frazione di Pieve San Giacomo, Ognissanti, che prende il nome dalla chiesa barocca intorno alla quale sorgono le case, sono ricordate in un articolo di Michela Garatti pubblicato su Più del 10 ottobre 2009.

Michela Garatti

[il dono delle uova alla Madonna ]

La chiesa, fino a pochi decenni fa, custodiva statue lignee della Madonna Addolorata, della Madonna del Rosario e del Sacro Cuore. Se oggi nella chiesa si celebra solo la messa prefestiva del sabato, fino alla metà del secolo scorso i ritmi della vita parrocchiale scandivano la vita del paese: processioni, celebrazioni ed usanze si susseguivano nel corso dell’anno.

Era tradizione, ad esempio, che il 25 marzo le donne portassero le uova in dono alla Madonna: il parroco poi le vendeva al negozio della famiglia Boari. (l’Osteria del cavallo bianco era un locale che riuniva insieme bar, forneria, bottega di generi alimentari e tabaccheria).

C’era sempre la processione dell’Addolorata, patrona del paese, che si svolgeva il venerdì precedente la settimana santa: in quella occasione le donne portavano a far benedire il radicchio da dare alle chiocce. Il 15 settembre poi .la statua lignea della Vergine era portata attraverso il paese, scortata dalle Consorelle dell’Addolorata, donne del paese vestite di una tunica nera, con una grossa candela e un rosario di sette decine. Infine le processioni delle Rogazioni, quattro giorni prima dell’Ascensione, che per altrettanti quattro giorni portavano nei punti cardinali del paese quattro croci benedette.