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La cucina di casa

Nelle campagne l’alimentazione aveva una base quasi interamente vegetale, con condimenti a base di grasso di maiale o di olio di noci (essendo quello d’oliva una merce assai pregiata e costosa) e sulle tavole contadine raramente apparivano carni e pesce; anche le famiglie di città si servivano ampiamente dei prodotti dell’orto.

Le verdure degli orti conventuali costituivano parte importante dell’alimentazione quotidiana dei religiosi e delle religiose: tale situazione si accentuava in tempo di Quaresima, come è attestato da un interessante menù quaresimale delle monache benedettine di Soncino.

Anche nelle raffinate cucine dei palazzi nobiliari le verdure giocavano un ruolo importante: ce lo attesta un trattato del Seicento scritto da Lancelot de Casteau, apprezzato capocuoco nelle cucine di principi vescovi e di nobili signori, che pur dimostrando una vasta conoscenza dell’arte culinaria di diversi stati europei del suo tempo, si richiama soprattutto alla cucina italiana. Tra i tanti piatti di origine italiana, ben tre sono le specialità cremonesi: una salsa di Cremona (probabilmente assai nota a quel tempo, dato che non ne indica gli ingredienti, limitandosi a consigliarla come contorno ad un arrosto di cigno), la mostarda di Cremona e una torta verde di Cremona, specie di timballo di spinaci (con zucchero e uvetta, secondo l’uso del tempo) derivato probabilmente dalla torta di erbe la cui ricetta è data dal Platina nel suo De honesta voluptate et valetudine, il primo fra i libri di cucina divulgati a stampa (1474).

Vitto ordinario nel tempo della Quadragesima (1599-1606)

Elenco dei cibi consumati giorno per giorno durante la settimana al tempo della Quaresima dalle monache benedettine di S.Caterina di Soncino

La domenica si fa delli ceci in minestra, per pitanza quattro libre di pescaria, la sera della pannata.
Il lunedì minestra di verze over spinacci, pitanza delle fritole.
Il martedì fagioli, pitanza quattro libre di pescaria o veramente fava rostita.
Il mercordi si fa menestra di fogliate con l’agliata, per pitanza delli gambari, over ranzoni et insalata.
Il giovedi si fa minestra di ceci, per pitanza quattro libre di pescaria.
Il venerdi della panata, per pitanza delle noci overo fava rostita.
Il sabato menestra d’herbe overo lumache et insalata. La sera non si da niente di colatione.

Alessandro Tassani, nel suo saggio del 1847 già citato, scrive che «le donne preparano la pasta con farina di cattiva qualità e così la fogliata non è elastica, né sottile, né omogenea. La si taglia in pezzi, la si fa bollire pochi minuti in acqua e così commista a fagioli, fave, verze od altre verdure e condito il tutto con lardo od olio, serve a formare quella minestra di cui le due e fin le quattro volte la settimana sogliono cibarsi a mezzogiorno i contadini, quando non siano per maggior miseria costretti a non far uso che della polenta. Un altro cibo vegetabile d’uso comunissimo così in città come in campagna ... è il riso. Con esso, mescolato ordinariamente a legumi, verze od altri erbaggi e cotto nel brodo, ovvero condito col lardo o col burro, si prepara la minestra di riso, alla quale si aggiunge, dopo che è versata sui tondi, una indeterminata quantità di vino, onde riesca meglio saporita e corroborante... Non indifferente è per ultimo il consumo che si fa delle verzure mangerecce, che, come abbiamo altrove veduto, si coltivano generalmente nelle ortaglie e campagne aperte...». La stessa fonte riporta che «I contadini fanno 4 pasti al giorno d’estate e 3 d’inverno. Colazione: polenta abbrustolita al fuoco e formaggio o verdura (i più miserabili solo polenta); Desinare: minestra condita con lardo o olio e mista con fagioli, fave, verze, verdure in genere per 4 giorni, poi polenta e salame o formaggio o verdure / oppure pesce fresco o merluzzo; Merenda (solo d’estate): polenta con insalata o salame; A cena: polenta con il companatico e pane se ne hanno».

Pour faire tourtes cremoneze verdes

Prennez des espinasses et les faictes boulir, hachez bien menues, une poignée de méte hachée, avec quatre onces de bon parmesan raspé, quatre onces de beurre fondu, trois onces de succre, deux onces de carentines, deux oeufs cruds, un satin canelle, deux noix muscades, faites tourtes comme les autres, succre par dessus, le servez ainsi.

(Lancelot de Casteau, Ouverture de cuisine, Liegi 1604, p.36)

[Ricetta] per fare torte verdi come a Cremona

Prendete delle spinaci e fatele bollire; tagliatele finemente e unite un pugno di menta sminuzzata, quattro once di buon parmigiano grattugiato, quattro once di burro fuso, tre once di zucchero, due di uvette di corinto [?], due uova crude, un quarto d’oncia di cannella, due noci moscate. Fatene torte secondo la solita indicazione e zuccheratene la superficie, poi servite.

Giacomo Marenghi per quanto riguarda l’alimentazione nelle campagne cremonesi nella seconda metà dell’Ottocento scrive che «la minestra si cuoce nel brodo fatto con civaie (legumi) provenienti dall’orto... all’epoca delle zucche ne adoperano tante... il contadino consuma molti erbaggi specialmente conditi coll’olio, col sale e con l’a ceto, cicoria, lattuga, indivia e più che tutto il cavolo che viene foggiato in tutte le maniere immaginabili».

L’impiego delle verdure in cucina seguiva ovviamente il ciclo di maturazione e di disponibilità dei singoli prodotti e la tradizione aveva collegato alle principali ricorrenze festive uno o più piatti tipici che le donne di casa si facevano un punto d’onore nel cucinare al meglio nel rispetto della tradizione:

17 Gennaio - S. Antonio protettore degli animali: in alcune zone del Cremonese si cucinavano gnocchi di patate, in altre, della parte orientale della provincia, i tortelli di zucca una parte dei quali veniva versata nel pastone delle mucche da latte per preservarle dalle malattie.

In alcune cascine si regalava alle famiglie più povere, perchè celebrassero anche loro la festa del santo, la cosiddetta «pulèenta infazulàada» cioè la polenta cotta con i fagioli. Si recitavano davanti all’immagine del santo questi versi scherzosi:» Sàant Antòni dèla baarba biàanca, mè mài i turtéi, e té gnàanca» (Sant’Antonio dalla barba bianca, io mangio i tortelli e tu ... niente).

Periodo Pasquale: il Giovedì Santo si mettevano a mollo in acqua, in due diverse zuppiere, fagiolini dell’occhio e lenticchie e dopo che si erano così ammorbiditi, il Venerdì Santo si cucinavano in un soffritto di cipolle fresche e olio. Ai rintocchi del mezzogiorno si versava nella pentola di cottura della buona conserva di pomodoro ed erano così pronti da mangiare ben caldi subito dopo averli versati nelle scodelle in cui si intingeva il pane biscotto. Il Lunedì dell’Angelo, detto anche giorno di Pasquetta, si gustavano sui prati all’aperto salame, uova sode e insalata.24 Giugno - S. Giovanni: si raccoglievano cipolle, aglio; era anche il giorno di raccolta delle noci ancora avvolte nel loro verde mallo, da impiegare per la preparazione del nocino.16 Agosto - S.Rocco: gnocchi di patate; «per San Ròch se fà i gnòch» recita un antico proverbio cremonese. S.Rocco era il protettore della corporazione dei Fruttaroli, limonari e pollaroli e gli iscritti , il giorno della sua festa, dovevano recarsi nella chiesetta a lui dedicata, fuori porta Mosa, per rendergli omaggio.

2 Novembre - giorno dei Morti: fagiolini dell’occhio con le cotiche è il piatto tipico del giorno. A Cremona gli osti ne offrivano scodelle fumanti ai loro clienti che ritornavano infreddoliti dalle visite al cimitero. Scriveva Pierluigi Lanzoni in Nuember:

Stagiòon de cùdeghe, stagiòon de fazulìin,
de màs de grizantémi e usèt de mòort;
cui primi frèt, l’aria de’n viulìin
la cùr so per en ceel bàs e smòort

24 Dicembre - Vigilia di Natale: tortelli di zucca benedetti dal capofamiglia e lasciati poi sulla tavola perché, durante la notte, potessero mangiarne anche i parenti defunti.

Nella prima metà del Novecento l’alimentazione con le verdure continuò a mantenersi simile a quella del passato.

Per tutto l’anno si preparava la minestra cuocendo le verdure dell’orto in acqua, insaporendole con un soffritto o con olio, strutto, o pistada di lardo. La pasta era fresca, tranne che nel periodo dedicato all’allevamento del baco da seta in cui le donne erano tanto impegnate da non aver tempo per «tirare la sfoglia»; si impiegava allora riso o pasta secca ottenuti in negozio con un baratto di uova fresche o di prodotti dell’orto.

La conserva di pomodoro si faceva sempre in casa: i pomodori bolliti si mettevano in una federa che si appendeva a sgocciolare per una notte. Il giorno dopo si passavano al setaccio, schiacciandoli con le mani, si rimettevano a bollire e si otteneva una conserva densa, scura che si riponeva nelle teragne di coccio; per farla durare più a lungo si mettevano tre etti di sale per ogni chilo di conserva. Più tardi, dopo la guerra, si usò come conservante l’acido salicilico, riducendo quindi la quantità di sale ed i tempi di sobbollittura: ne risultò un prodotto meno salato, più liquido e dal colore più brillante; ma c’è chi rimpiange la conserva di un tempo. È il caso di Ugo Tognazzi, del quale riportiamo due classiche ricette della cucina cremonese di casa.

La minestra della nonna

Ingredienti

  • mezz’etto di pancetta
  • un ciuffo di prezzemolo
  • due spicchi di aglio
  • mezzo rametto di rosmarino

il tutto tritato finemente con la mezzaluna

  • riso
  • olio
  • provolone o parmigiano

So che molti ricorreranno, se ce l’hanno, al tritatutto. Però c’è una differenza fra il tritatutto e la mezzaluna. L’elettrodomestico ti dà una pappa maciullata, mentre tritando con pazienza servendosi della mezzaluna si ottiene un pesto diverso. I risultati si vedono poi a fine cottura.

Al tritato va aggiunta la conserva di pomodoro.

All’epoca di mia nonna, la conserva aveva un colore quasi nero, tanto era forte. Oggi la conserva ha un aspetto più gentile ed è meno violenta, per cui sarà difficile ottenere quel sapore potente ma gustoso che aveva allora la minestra. Comunque diciamo che al tritato va aggiunto tanto doppio concentrato di pomodoro fino a rendere il soffritto di un colore rosso cupo (che poi diventerà arancione con l’aggiunta dell’acqua). Ricordo che la nonna, al tritato con la conserva aggiungeva due o tre patate tagliate a pezzettini, e due litri d’acqua. Attendete che le patate siano ben cotte. La nonna, con la forchetta, schiacciava le patate raccolte nel mestolo. Schiacciatele anche voi. È giusto fare le operazioni alla vecchia maniera perché allora è alla vecchia maniera che verrà la minestra. Solo così la minestra avrà quel certo sapore che oggi non si ritrova più.

Alla fine della cottura la nonna metteva indifferentemente riso o pasta. Ho il vago sospetto che aggiungesse anche un pochino d’olio. Sennò gli occhietti non vengono bene. Per completare la minestra mia nonna aggiungeva del provolone grattugiato, che era il formaggio dei poveri...

Gli spinaci di mamma

Vorrei spiegarvi come faceva gli spinaci la mia povera mamma. Sì, sono gli stessi che sapete fare anche voi, però...

Intanto la mia mamma li faceva cuocere lentamente nel burro, molto lentamente, a fuoco bassissimo, e oltre al sale e al pepe, aggiungeva un pizzico di noce moscata. Verso la fine della cottura versava mezzo bicchiere di latte, anche questo lentamente, un po’ per volta; e quando il latte asciugava, ne aggiungeva magari dell’altro. Poi buttava dentro anche una manciata di formaggio parmigiano. Insomma, in poche parole, tutti gli ingredienti si devono consumare negli spinaci e con gli spinaci. E poi, cosa volete, le mamme sono sempre le cuoche più brave.

Ugo Tognazzi, L’Abbuffone, Rizzoli ed., Milano 1974, pp. 25 e 137

Con le verze si cucinavano i crauti , le verze matte, le verze cotte con lo strutto, la verza pola (si tritava finemente, si passava in olio e aglio e poi si condiva con l’aceto).

Erano ottime anche con le costine di maiale.

Le zucche si sono sempre cucinate per fare minestre, ma si mangiavano anche lessate e fritte. Con quelle non molto buone si faceva bujaca: le si lessava, si invitavano vicini di casa ed amici, e tutti insieme le si mangiava attenti più agli scherzi, alle battute, ai giochi che al sapore della zucca. Nel dialetto cremonese bujaca è una merenda campagnola improvvisata con i prodotti dei campi.

Le patate erano messe oltre che nelle minestre anche negli intingoli, cotte in umido, ma erano gustose anche lessate nell’acqua o cotte tra le bragie o nella cenere calda del camino.

Con i germogli di luppolo si facevano minestre e frittate, ma i luertiis erano ottimi anche fritti (lesssati, asciugati, infarinati e messi un attimo nell’olio bollente).

Le frittate che si preparavano e si continuano a cucinare oggi a Cremona sono sempre state ricche di verdure fornite dall’orto, diverse secondo stagione (cipolle, cipollotti, spinaci, erbette, zucchini, patate, etc.).

Le cipolle si gustavano lessate, condite con olio e aceto, o in agrodolce.

 

Risotto di radici di Soncino

Ingredienti per 6 persone

  • un litro di brodo di carne
  • mezzo chilo di riso Arborio o Carnaroli
  • due radici di Soncino (scorzonere)
  • due scalogni
  • un rametto di rosmarino
  • un ciuffetto di prezzemolo
  • mezzo bicchiere di vino bianco secco
  • due etti di grana grattugiato
  • un etto di burro
  • pepe quanto basta

Preparazione

Fate soffriggere nel burro lo scalogno tritato fine, il rosmarino e le radici tagliate a rondelle sottili, dopo averle pelate. Quando tutto sarà imbiondito aggiungete il riso e tostate mescolando. Aggiungete il vino e fatelo evaporare, unite poco alla volta il brodo e portate a cottura. La cottura durerà 17-18 minuti. Al termine unite il grana, il prezzemolo tritato e il pepe. Servite ben caldo.

Tratto da Ricette di osterie della Lombardia - Cremona e il suo territorio, a cura di Marino Marini, Brà (Cn) 1998, p. 70

Le rape si mangiavano crude o cotte in minestra. Le ravele, le radici di Soncino, adesso si trovano facilmente dagli ortolani, ma una volta crescevano negli orti ed era difficile che crescessero bene: o erano piccole, o erano storte, o legnose all’interno. Si mangiavano crude o lessate. Le radici si possono utilizzare anche per un insolito risotto.

Con i piselli si facevano ottimi intingoli per accompagnare pesci e carni; i fagioli non mancavano mai nelle minestre: erano speciali soprattutto con i maltagliati di pasta fresca, ma erano buoni anche lessati o cotti in umido.

Una menzione particolare merita un erbaggio caratteristico: l’erba amara, nota anche come erba di San Pietro perché verso la fine giugno l’erba raggiunge il suo apice aromatico ed il 29 giugno, appunto, si celebra la festa di San Pietro. L’erba, che ha un caratteristico gusto amarognolo, viene impiegata nella preparazione di tortelli di ricotta, secondo un uso che dal territorio di Castelgoffredo, nel Mantovano, si è esteso anche nell’area di Casteldidone e di Isola Dovarese.