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Allevamento e lavorazione delle carni

La preistoria

Il Cremonese fu abitato in epoche postglaciali da gruppi di nomadi che vivevano di caccia, di pesca e di raccolta; sostavano in prevalenza al limitare delle vaste foreste di latifoglie che allora ricoprivano la pianura padana, presso le rive di fiumi, di lanche o di paludi dove la presenza d’acqua dolce rendeva più facile reperire i mezzi di sussistenza.

Dal nomadismo si passò gradualmente alla stanzialità, e negli ultimi secoli del V millennio a.C. comparvero le prime comunità di agricoltori e di allevatori che, accanto alla caccia a cervi, cinghiali e caprioli, all’uccellagione ed alla pesca di pesci, molluschi e tartarughe di acqua dolce, iniziarono a coltivare cereali e ad allevare ovini, caprini, suini e piccole mandrie di bovini.

Ciò è testimoniato da rinvenimenti casuali o dai frutti di specifiche campagne di scavo, dai quali risulta documentato sia il consumo di carni di cinghiale e di altri animali selvatici catturati attraverso la caccia, sia quello di suini e di altri animali allevati nei pressi delle abitazioni. Nell’età del bronzo antico (2300-1700 a.C.) i resti faunistici dei villaggi palafitticoli testimoniano la predominanza dei bovini (55,3%), seguiti dai caprovini (26,4%) e dai suini (15,5%). Nell’età del bronzo medio recente (1700-1150 a.C.), il gruppo più rappresentato tra gli animali domestici per numero di individui è quello degli ovocaprini, seguito da suini e da bovini. Nell’età del bronzo finale (1150-950 a.C.) mutano gli insediamenti abitativi, non più palafitte e terremare ma nuovi centri di aggregazione. Nell’abitato di Vidolasco (Cr), prospiciente il fiume Serio, i resti faunistici rinvenuti con gli scavi appartenevano a 16 individui, di cui 7 bovini, 5 maiali, 2 capre, 2 pecore, 1 cavallo, 1 cane, mentre quelli di fauna selvatica derivavano da 15 individui di cui 6 cervi, 5 cinghiali, un capriolo, 1 castoro e 1 orso bruno (1).

1) Da M. Pearce, Una pianura tra le acque: preistoria e protostoria del Cremonese, in Storia di Cremona, L’età antica, Bergamo 2003.

 

I Celti

La prima popolazione ricordata in età storica è quella dei Celti, insediati nel Cremonese prima della venuta dei Romani. Essi furono allevatori e contadini, e le loro attività zootecniche, già abbastanza evolute, consistevano principalmente nell’allevamento dei suini, quali animali da carne, e dei bovini per il traino e la produzione del latte. Strabone (64 a. C. - 21 d. C) nel libro IV della Geografia ci informa che l’alimentazione dei Celti consisteva principalmente in latte e carni fresche e salate, soprattutto di maiale, che esportavano in grande quantità non solo a Roma ma anche in altre regioni dell’Italia peninsulare, servendosi delle vie d’acqua, più sicure e veloci delle vie di terra. Sul Po, oltre le persone, si trasportavano vino, grano, maiali, tessuti, legname...

 

L’età romana

Lo storico greco Polibio, dopo aver attraversato la pianura padana nel II sec. a.C. seguendo un itinerario che, ripercorrendo il viaggio di Annibale in Italia, lo portò anche nelle vicinanze di Cremona, scrisse «…Tanta è l’abbondanza di ghiande raccolte nei querceti della pianura che la maggior parte dei suini macellati in Italia, per le necessità dell’alimentazione domestica e degli eserciti, si ricava tutta dalla pianura padana … dove i prodotti alimentari sono particolarmente copiosi e a buon mercato».

In età romana Cremona continuò ad essere famosa per la produzione di carni suine. Esse costituivano uno dei maggiori motivi di attrazione della allora celebre fiera autunnale, che attirava a Cremona compratori e curiosi da tutta la penisola.

Quando Cremona venne distrutta dalle truppe di Vespasiano nel 69 d.C., come racconta Tacito (55 -120 d.C. ?) nelle sue Storie (III, 31), la città era piena di «gente lì convenuta da gran parte d’Italia per la fiera che cadeva proprio in quei giorni», ed era una fiera in cui si commerciavano soprattutto suini e altro bestiame.

 

Vita di un paese del contado cremonese in età romana

I recenti scavi di Bedriacum, nelle vicinanze dell’attuale Calvatone, paese della Bassa cremonese a una trentina di chilometri dalla città, hanno portato alla luce reperti faunistici e resti vegetali molto interessanti per definire alcuni aspetti dell’alimentazione, dell’agricoltura e dell’allevamento al tempo dei Romani, in età tardo-repubblicana e imperiale. Il paese sorgeva sulle rive del fiume Oglio e del canale allora navigabile Delmona, ed era raggiungibile attraverso la via Postumia, che congiungeva Genova ad Aquileia, il mar Ligure al mar Adriatico.

Dall’esame dei reperti faunistici si è dedotto che gli abitanti allevavano il bestiame e lo macellavano in loco e si cibavano anche di animali che si procuravano con la caccia e con la pesca.

Le carni erano cotte sia in pentola che allo spiedo. I resti rinvenuti sono di mammiferi domestici, quali bovini, ovini, caprini, suini, equini e, cosa che ci farà stupire, anche cani; venivano poi consumati pesci e molluschi, folaghe, galline, anatre ed oche...

I resti di suini sono tra i più numerosi, come è naturale per Bedriaco, località caratterizzata dalla presenza di querceti, luogo ideale per l’allevamento di maiali allo stato brado; essi venivano macellati sul posto tra i dodici e i ventiquattro mesi, quando cioè raggiungevano il peso ottimale per la resa di carne.

Dai segni di taglio presenti sulle ossa si è dedotto che venivano utilizzate tutte le parti e che la testa, ad esempio, staccata dopo il dissanguamento dell’animale e prima del sezionamento della carcassa, veniva trattata per ricavarne il musetto e il guanciale.

Si è osservato che il tenore di vita di Bedriacum doveva essere alto, dato che veniva consumato vino proveniente dall’area egea come dimostrano le anfore ritrovate. Poche sono le anfore olearie ritrovate e provenienti dal centro sud, e da ciò si deduce che per cucinare si impiegasse prevalentemente grasso animale prodotto in loco.

Notizie desunte da L. Passi Pitcher (a cura di), Bedriacum. Ricerche archeologiche a Calvatone, 2 voll., Milano 1996.

Il Medioevo

Dopo la caduta dell’impero romano la situazione non si modificò, e tale sostanzialmente si mantenne anche durante il regno dei Longobardi prima e dei Franchi poi.

A differenza di quanto avviene oggi, i maiali allora venivano allevati principalmente allo stato brado, e così si continuò a fare per tutto il Medioevo: l’uso dei porcili era ridotto al minimo indispensabile, i maiali vi stanziavano solo quando mancava il cibo nei boschi o nei momenti particolari come per le scrofe il parto.

Erano anche di aspetto diverso, di stazza più piccola e molto più simili ai cinghiali, ed erano ricoperti di un vello lanoso (secondo alcuni Milano derivò il suo nome proprio da un tipo di maiale che lì veniva allevato, per metà coperto di setole e per metà lanuto) che li proteggeva dal freddo dato che anche d’inverno vivevano principalmente all’aperto.

La pianura padana era in quel tempo solo in parte dissodata e coltivata, per il resto era coperta da boschi nei quali erano numerose le querce, le cui ghiande erano apprezzate dai suini, sia i maiali, lasciati liberi di pascolare in uno stato semiselvatico, sia i cinghiali.

Le carni suine erano consumate fresche, ma ben presto vennero messe a punto tecniche di conservazione mediante l’impiego di sale e di spezie, che giungevano a Cremona e nel suo territorio attraverso il Po, grande e sicura via di comunicazione con il mare.

Il porto di Cremona era grande e affollato di merci e di persone: un editto del re longobardo Liutprando aveva fin dal 715 d.C. regolamentato le tasse in denaro e in natura che venivano riscosse per il passaggio e per la sosta delle imbarcazioni nonché per la vendita delle merci trasportate; ancora nel XIII secolo di esso continuavano a servirsi per i loro commerci i comuni lombardi limitrofi di Bergamo, Brescia e Lodi.

Grande era la varietà dei prodotti commerciati, come risulta dai dazi sulle merci stabiliti dalla Gabella e raccolti in un codice conservato all’Archivio di Stato di Cremona: fra le derrate alimentari le più comuni erano vini, carni macellate o secche di bovini e di suini, pesce fresco e salato, polli, uova, selvaggina, formaggi, frumento, legumi.

In città il mercato dei porci era a porta Mosa, verso San Michele, nella piazza Maggiore; lì si vendevano carni di maiale e di castrato, ma anche polli e salumi; nella piazza Piccola sostavano invece i fruttivendoli; tra il Battistero e il Vescovado tenevano banco infine i pescivendoli.

 

Il maiale nell’arte figurativa medioevale

Numerose sono in area padana le figurazioni che rappresentano in modo realistico attività di allevamento o di macellazione dei maiali, dando con ciò testimonianza del rilievo che esse avevano nell’economia rurale del tempo.

Per quanto riguarda il territorio del Cremonese le prime testimonianze figurative della presenza rilevante dell’allevamento suino risalgono all’XI secolo: su un capitello della chiesa di S. Sigismondo a Rivolta d’Adda è raffigurato un norcino con un grosso coltello in mano, intento a squartare un maiale.

Nel Martirologio di Adone, un codice membranaceo conservato nell’Archivio storico diocesano e trascritto nel 1181 dal presbitero Alberto in sostituzione di un testo più antico, numerose miniature illustrano momenti di vita rurale: in ottobre un contadino scuote i rami di una quercia per farne cadere le ghiande e due maialetti sbucano da dietro l’albero pronti a cibarsene; in novembre invece un altro contadino taglia a metà un maiale appeso ad un tronco.

Nel fregio dei mesi che orna il protiro della cattedrale di Cremona (opera della prima metà del XIII secolo, attribuita a Benedetto Antelami o ad uno scultore della sua cerchia) si presentano immagini molto simili, che facevano parte degli stereotipi figurativi di quell’epoca: per ottobre l’abbacchiatura delle noci con un porcellino selvatico che mangia i frutti caduti a terra; per novembre l’uccisione e la squartatura di un maiale.

 

Il maiale nei documenti medioevali

Anche i documenti scritti attestano la presenza di porci e porcari (a lungo però col termine porci si definirono indifferentemente cinghiali e maiali). Il furto del bestiame, e quindi anche dei porci, era un’attività tutt’altro che rara. Nell’Archivio di Stato di Cremona sono conservate (2) ad esempio alcune richieste di risarcimento danni rivolte al podestà di Cremona da parte di cittadini cremonesi che hanno subito furto di porci, di buoi, di vacche ed anche di panni da parte di piacentini a Lardera, in località Cornovecchio, vicino a Maleo. Bartolomeo, Nicola, Alberto e Lanfranco chiedono rispettivamente 76, 56, 46 e 20 lire imperiali in base al valore del danno subito e promettono di restituire le somme avute dal Comune di Cremona nel caso in cui il Comune di Piacenza o qualcun altro avesse provveduto a risarcirli. Di fatti simili accaduti nel 1235diede notizia Ugo Gualazzini in uno studio pubblicato nel 1932 (3).

(2) Archivio di Stato di Cremona, Comune Cr, Fondo segreto, Pergamene, nn. 573-587 (1232).

(3) U. Gualazzini, Indagini sulla storia del salame a Cremona, in Il bollettino dell’economia provinciale, anno XXII, Cremona 15 sett. 1932.

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Produzione di salumi e di insaccati

Connessa all’allevamento dei suini per fini alimentari, doveva essere attiva nel Cremonese anche la produzione di salami e di insaccati a Cremona, ma di essa abbiamo attestazioni documentali solo a partire dal Cinquecento; dalle prime testimonianze scritte risulta tuttavia che si tratta di una tradizione antica e solidamente radicata.

Il notaio Ludovico Cavitelli, autore di una storia annalistica della città (pubblicata a Cremona nel 1588), scrive ad esempio che «alcuni cremonesi, essendo la maggior parte di loro sempre stata industriosa e di un ingegno acutissimo, escogitarono e prepararono per lauto cibo degli uomini, un tipo di salsiccia di carne suina o bovina. Tagliata a pezzettini, macinata e mescolata a polvere di pepe o zenzero, cinnamomo, cannella e altri aromi e, infilata negli intestini degli animali e subito cotta al fuoco in acqua oppure arrostita, imbandita sulla mensa e mangiata dai convitati».

Nei doni che nella seconda metà de Cinquecento la Magnifica Comunità di Cremona inviava ai rappresentanti del Governo spagnolo di Milano in occasione delle festività natalizie erano quasi sempre presenti, oltre a dolci come il torrone e le cotognate, anche salami e cervellato (un tipo di salsiccia). Ciò doveva servire non solo a sveltire pratiche bloccate dalla lentezza burocratica, ma era anche un mezzo per far conoscere la bontà della produzione locale e, in tal modo, introdurla nei mercati forestieri. Senza i doni «non si può avere buona ciera nè expeditione alcuna cum quelli occorre negotiare» e per questo l’oratore chiede nel 1556 alla Magnifica Comunità la spedizione di «314 scatole di torrone, 49 cappi di salame, vasetti di cotognata et cervellato».

Anche gli anni seguenti gli ambasciatori cremonesi sollecitano l’invio a Milano prima del Natale di torrone e salami per poterli distribuire durante le feste e ne chiedono quantità sempre maggiori per poter accontentare tutti gli ufficiali e le alte cariche.

Da Milano Paolo Fossa – una sorta di portavoce della città presso il governo spagnolo – scrive ai deputati della Magnifica Comunità di Cremona che l’8 gennaio 1558 ha consegnato personalmente tali doni e il governatore, l’illustrissimo signor Figueroa, ha ringraziato calorosamente dicendo «che il dono era muy honorado et grande et che ringraziava la […] città del suo bonoanimo».

Il salame si gusta non solo alle tavole delle eccellentissime autorità spagnole, ma anche a quelle più modeste delle monache di città e provincia, come attestano i rendiconti delle visite pastorali che il vescovo Speciano fece ai monasteri femminili negli anni tra il 1559 e il 1606, e se ne mangiavano le monache è lecito presumere che ne mangiassero anche i cremonesi del tempo. Dai menu settimanali delle monache risulta che la carne di manzo, di vitello, di pollo ed il salame si consumano la domenica; negli altri giorni della settimana (escluso il ovviamente il venerdì, quando il precetto imponeva di astenersi dal consumo delle carni) il salame si mangia fresco a fette, ma a volte lo si cuoce (è l’odierno salame da pentola, credo) e la sera si mangia la salsiccia.

 

Mortadelle e cotechini nel Cinquecento

Ma anche le mortadelle cremonesi hanno qualche estimatore: Tommaso Garzoni (1549-1589) scrive che alcuni ricordando «…le mortadelle di Cremona, il cervelà fino di Milano, il formaggio di Piacenza… la salsiccia modenese… fanno discorsi da eccitar l’appetito perfino ai morti» (4).

Il cotechino cremonese, quello fatto a Casalmaggiore, ebbe pure l’onore di un sonetto laudativo composto dall’abate genovese Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768) che, soggiornando alla corte di Parma ebbe modo di assaggiarlo e, da ghiottone qual era, definirlo «l’ottimo fra gli altri»:

…codeghini Ferrara egregi fa;
Modena senza lode irsen non de’:
sel soffra l’una e l’altra gran città,
il codeghin sovrano il lor non è.
Il codeghin che sempre il miglior fu,
il codeghin che ognun che ne pappò
d’imbalsamarlo sempre ebbe virtù,
Casalmaggiore, da te si fabbricò… (5)

Nel XVIII secolo una mortadella è inviata in dono, insieme a prosciutto e torrone, dalla Carità Mariani di Cremona al proprio avvocato di Milano, Antonio Persichelli (6). Sulla composizione della mortadella di Cremona ci illumina un manoscritto di autore anonimo, presumibilmente della prima metà dell’Ottocento, nel quale troviamo la ricetta per fare la mortadella di Cremona: «Piglierai carne magra e carne grassa di porco, metà e metà, e per ogni rubbo [circa 9 chili] aggiungerai pevero once tre, zenzero un’oncia, cannella, noce moscata e chiodi di garofano, di ciascuna droga tre quarti d’oncia, grani due di musco, formaggio piacentino libbre una, sei once di sale, vino rosso e grosso once dodici» (7).

(4). T. Garzoni, La piazza universale, Venezia 1586, p. 837.

(5) C. I. Frugoni, Opere poetiche, Parma 1779, t. III, p. 265.

(6) Archivio di Stato di Cremona, 1714, Istituto elemosiniere, Corpi soppressi 727, Rep.p. 8.

(7). Ricettario manoscritto presso la Biblioteca ex reale di Torino, riprodotto in F. Cunsolo, La cucina lombarda, Milano 1963, p. 202.

 

Impiego di spezie ed altri aromi: cipolle o aglio?

Come si vede le spezie venivano largamente impiegate, sia per insaporire le carni sia per agevolarne la conservazione. Nell’Archivio storico diocesano di Cremona ho avuto modo di leggere una curiosa carta del 1691: Spesa per far il salame.

È una nota spese mandata da uno speziale alla famiglia Ugolani Dati ed elenca le spezie e gli aromi usati per preparare il salame: cannella sopra fina, pepe pestato, pignoli, fenocchio pestato, garofalo, latte, cipolle di Como (piccole cipolle del diametro di non più di 3 cm, di forma schiacciata, adatte per i sottaceti: oggi è detta giallognola di Como).

L’uso della cipolla in luogo dell’aglio che oggi viene usato per insaporire il salame Cremona mi ha incuriosito, ma nel Seicento e nel Settecento doveva essere invece pratica assai diffusa, dal momento che ne ho trovato conferma in tre ricette (Sanguinacci; Del modo di aggiustare il sangue di vitello, di porco […] non facendo sanguinacci; Maniera di fare ogni sorta di salsiccia) riportate ne La cuoca cremonese. Almanacco per l’anno 1794, pubblicato a Cremona dall’editore Lorenzo Manini. In esse si impiegano sempre, per dare sapore all’impasto, cipolle tagliate in piccoli dadi, con o senza prezzemolo e con l’aggiunta di spezie fine; talvolta viene indicato di inserire nell’impasto di carne per fare la salsiccia anche tartuffoli o cipolle a pezzi, che si suggerisce di tritare insieme. La prima testimonianza di salame insaporito dall’aglio si legge ne La sposa Berta, una commedia in dialetto cremonese del 1794 (8) in cui si descrive una gustosissima merenda che fanno quattro amici a basedi pane, schiacciata, salame all’aglio e cotechino, il tutto accompagnato da un buon vino di Pugnolo e dal Negrone mantovano.

 

Allevamento e lavorazione delle carni: nell’Ottocento

Nell’Ottocento diversi saggi e studi sulla provincia di Cremona evidenziano, per quanto riguarda l’economia, l’importanza e la qualità dei salumi cremonesi.

Nel Supplemento che Giovanni Sonsis scrive nel 1807 a completamento delle Risposte fornite dal padre, prof. Giuseppe Sonsis, ai quesiti dati dalla Prefettura del Dipartimento dell’Alto Po, alla voce Quadrupedi domestici, e loro uso così scrive: «Il Porco o Maiale è forse la stessa specie del Cignale, o Porco selvaggio alterata e variata dall’educazione. Animale puzzolente, stupido, immondo, che ama il fango, e le sozzure nelle quali volentieri s’avvolge. È onnivoro, fecondo, e colle narici mobili, e prominenti scava la terra per dissotterrare radici, e tartufi, che divora avidamente. Ve ne sono di neri, di bruni, macchiati di bianco, e dei rosso-scuri. S’ingrassa col frutto della Quercia, coi semi della Melica rossa…, colla crusca, coi frutti del pomo, del pero, colla buccia dell’Anguria, e del Melone. Gustosa è la sua carne sì fresca che salata, e affumicata, o ridotta in Salsicciotti. Ci somministra anche il Lardo, e la Sugna; e questa entra pure nella composizione di molti unguenti.

I Porci provenienti dal Parmigiano sono più accreditati, forse perché nutriti di sole frutta; e negli anni scorsi da quello stato ne entravano nel Dipartimento molte centinaia ogni anno. Quasi tutti i contadini fra di noi ne allevano per loro uso, essendo per essi la più squisita vivanda, e servendo di condimento al loro vitto meschino» (9).

Alessandro Tassani (10) ricorda l’abbondanza di maiali allevati soprattutto nella provincia superiore e lungo la riviera del Po per la quantità di querce e l’abbondanza di granaglie: «le famiglie dei contadini […] possono allevare ed ammazzare ogni anno per loro uso un porco di nove a quattordici pesi. Colla carne porcina si preparano salati d’eccellente qualità».

Angelo Grandi, descrivendo le attività commerciali della città (11), enumera gli esercizi e le botteghe presenti a Cremona: le più numerose (ben 30) sono quelle di salsamentari e pizzicagnoli, più numerose di quelle dei prestinai (29) e dei venditori di carne bovina (25); si deve osservare che salsamentari e pizzicagnoli allora non erano solo venditori ma, a differenza di quanto avviene oggi, assai spesso producevano in proprio i salumi che poi vendevano nelle loro botteghe.

Ne conosciamo due (Luigi Nani, proprietario dell’antico negozio Giuseppe Giovannini posto in contrada del Corso al n. 107, e Davide Camilli – salsamenta- rio, negoziante di olii, formaggi, salati d’ogni sorta e vini di lusso con fabbrica di generi gastronomici – in contrada Maestra al n. 9) da cui si serve la famiglia Trecchi per i numerosi pranzi e per le suntuose cene imbandite nel loro bel palazzo per le grandi occasioni. Per la festa da ballo del 25 febbraio 1854 furono acquistati 13 salati, 100 limoni, salami da cuocere e salami alio; per quella del 15 febbraio 1858 zambone crudo e cotto; per quella del 3 aprile 1862 salame cotto, butirro, pasta di Genova, salati, salame stagionato fino e giambone (12).

Guglielmo Evangelista così scrive (13): «Anche se la maggior parte della produzione locale si imperniava sull’autoconsumo contadino, quando ogni famiglia allevava e macellava in casa un unico capo e confezionava da sé e solo per sé gli insaccati, crebbe sempre di più la diffusione dei laboratori artigianali che lavoravano, anche su quantità consistenti, per le città e l’esportazione».

Nel 1857 si afferma, in una relazione economica della Camera di Commercio, che l’industria salumiera aveva raggiunto una perfezione non comune. Poiché la materia prima locale non era sufficiente, si importavano ogni anno 1600 suini dal Ducato di Parma. Questa dipendenza negli approvvigionamenti dall’esterno della provincia andò acuendosi nei decenni successivi: Brescia, Milano, Regio Emilia, Piacenza e Lodi divennero le principali località fornitrici ma, in compenso, l’esportazione di carni lavorate raggiunse un valore decuplo di quello della materia grezza importata.

Una relazione del Ministero dell’agricoltura sulle condizioni industriali della Provincia di Cremona pubblicato nel 1888 sottolineava l’importanza dell’industria dei salumi ricordando la presenza nel solo Comune di Cremona di 29 fabbriche che lavoravano la carne suina.

Accanto ai salami e ai cotechini tipici di Cremona, di pura carne suina, si sviluppò anche una produzione di salumi misti di carne bovina immettendo sul mercato una grande quantità di mortadelle, salami tipo Milano, Genovese, Modenese, ecc.

La Produzione cremonese, in Italia, veniva assorbita principalmente nelle grandi città come Milano, Roma, Napoli, mentre all’estero era esportata in Svizzera, Inghilterra, Austria ed Egitto.

(8) Mi sono riferita all’edizione critica curata e commentata da G.L. Barbieri, Cremona 1999, pp. 108-111.

(9) G. Sonsis, Supplemento agli oggetti di storia naturale del Dipartimento dell’Alto Po…, Cremona 1807.

(10) A.Tassani,Saggio di topografia statistico-medica dellaProvincia diCremona,Milano 1847, pp. 27, 50.

(11) A. Grandi, Descrizione della provincia e diocesi cremonese, Cremona 1857, pp. 207 e XXXII.

(12) Archivio di Stato di Cremona, Archivio Trecchi, cartella 152, documenti 5, 8, 10, 11.

(13) G. Evangelista, I prodotti tipici della Provincia di Cremona, studio inedito del 2001, disponibile presso la Camera di Commercio di Cremona del quale l’Autore mi ha con generosità consentito di servirmi.

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…e nel Novecento

A fine secolo si distingueva, per vastità e modernità degli impianti, la Carulli e Lanfranchi di Duemiglia che aveva conquistato una consistente parte dei mercati di Genova, Milano e Stati Uniti. Già nel 1914 era segnalata l’esistenza di 13 grossi salumifici concentrati a Cremona e a Soresina, ma anche a Casalbuttano, Crema e Paderno Cremonese (ora Paderno Ponchielli).

Il periodo della lavorazione andava da ottobre ad aprile e successivamente, con il diffondersi dell’impiego di impianti refrigeranti, si estese anche durante l’estate.

Già negli anni ’20 il salumificio Pietro Negroni era il più importante della provincia e i documenti, sia dell’epoca che successivi, insistono in modo particolare sulla modernità dei suoi impianti e sull’estesissimo mercato che si era saputo conquistare.

Accanto ai grandi stabilimenti sopravvisse tuttavia a lungo l’uso di confezionare artigianalmente gli insaccati presso le salumerie, la cui lavorazione copriva circa un terzo del mercato.

In genere le imprese industriali lavoravano i salumi misti di carne bovina e suina destinati soprattutto alla esportazione, mentre i piccoli laboratori erano specializzati nella produzione di puro suino.

Il numero di suini macellati annualmente in provincia è andato crescendo con il tempo: dai 4000 di metà Ottocento si è passati ad oltre 10.000 all’inizio del secolo, fino ai 30.000 degli anni Venti. Ormai al giorno d’oggi ci si avvicina al 1.000.000 di suini macellati.

La produzione è andata costantemente crescendo insieme all’esportazione che negli anni ’50 aveva superato i livelli d’anteguerra. Dopo il 1950, oltre ai mercati tradizionali, si svilupparono in modo particolare quelli degli Stati Uniti e dell’America latina. Non si va lontano dalla verità se si afferma che oggi la provincia di Cremona provvede a non meno del 10% del fabbisogno nazionale di salumi».

 

Idelfonso Stanga (1867-1953)

Uno dei pionieri riformatori dell’agricoltura e della zootecnia in Italia è il marchese Idelfonso Stanga, proprietario a Crotta d’Adda di un’azienda agricola caratterizzata da un importante allevamento di suini.

Fu imprenditore illuminato: nell’ottobre 1920 si recò in America per studiare di persona i moderni metodi di allevamento dei suini; visitò anche i grandi macelli di Chicago, uno dei luoghi più importanti al mondo per il commercio dei suini, e ne studiò l’organizzazione produttiva, distributiva e commerciale. Ritornò a Crotta dopo aver acquistato per la sua azienda diversi campioni delle razze allevate negli USA, e fra essi Liberator’s Daisy, figlia di Liberator un maschio riproduttore pluripremiato per le sue eccezionali qualità. Condensò le sue esperienze americane in un libro, La suinicoltura in America, che aveva il dichiarato scopo di indicare alle aziende zootecniche italiane un modello di sviluppo, quello statunitense, che avrebbe consentito sensibili miglioramenti qualitativi ed economici. Applicò concretamente nella sua azienda agricola i principi che andava propugnando ed il suo allevamento di Crotta d’Adda, unico nel suo genere in Italia, divenne uno dei più grandi e completi in Europa. Continuò per tutta la vita a viaggiare (in Inghilterra, Danimarca e Belgio), a studiare, a pubblicare manuali pratici, aggiornando via via le successive edizioni, indicando agli allevatori, regione per regione la via da seguire per migliorare le razze locali, fornendo consigli sulla selezione delle razze locali e sull’introduzione di razze estere, indicando l’alimentazione più adatta in rapporto alle sostanze minerali e alle vitamine e suggerendo i criteri da seguire per la costruzione di ricoveri adatti al benessere degli animali.

Fu proprio lui a tenere a battesimo il termine «suinicoltura», come scrisse lui stesso nel volume Suinicoltura pratica (pubblicato nel 1915, e che fu più volte ristampato): «Suinicoltura è l’arte di allevare razionalmente i porci. Suinicoltura pratica è l’arte che, presumendo noti i principi scientifici e le condizioni generali […] si limita a quanto praticamente occorra e sia indispensabile, per riuscire bene, sicuramente e col maggiore profitto possibile, nel ramo di attività zootecnica che ha per materia il porco. Il vocabolo suinicoltura, che riconosco improprio, è stato da me creato molti anni orsono e vedo con compiacimento che si è generalizzato in Italia. Riconosco pure che il vocabolo maiale è improprio quando lo si usi a comprendere animali suini da riproduzione […] D’altra parte il vocabolo porco […] si presta troppo sovente […] a divenire una parola di carattere lurido e spregiativo: cosicché la simpatia all’argomento ha fatto commettere un piccolo delitto linguistico».

Testimonianza di Ambrogio Saronni

La situazione di oggi ci è ben riassunta da Ambrogio Saronni, un moderno erede dei salsamentari e pizzicagnoli che producevano nell’Ottocento gli insaccati che resero famosa Cremona. Egli è uno dei maggiori esperti cremonesi di gastronomia suina, e non solo.

«Il maiale allevato in passato a Cremona era di taglia piccola e di mantello scuro; la necessità di ottenere uno strato di grasso più consistente e cosce e spalle più sviluppate poi, portarono via via nel tempo gli allevatori cremonesi ad interessarsi anche alle razze estere. Sul finire dell’Ottocento si introdusse la razza inglese large white, particolarmente apprezzata per l’ottima qualità delle carni ai fini della trasformazione in prosciutto crudo. Dal punto di vista morfologico questa razza è caratterizzata da mole medio grande, coscia e spalla ben sviluppate,

tronco lungo e scheletro robusto. L’introduzione poi della razza belga landrace ha contribuito a migliorare significativamente la carnosità delle carcasse.

La maggior concentrazione degli allevamenti di suini in Italia si trova nella pianura padana, ed è connessa all’allevamento dei bovini ed alla lavorazione del latte, i cui scarti vengono utilizzati con profitto per alimentare i suini e favorirne la crescita di peso.

Questo impiego integrato è praticato anche nel Cremonese dalle aziende di una certa dimensione, che in genere sviluppano l’intero ciclo: dall’allevamento del suino alla macellazione, sezionatura e trasformazione delle carni in prodotti di salumeria. Vale la pena di sottolineare che mentre in Lombardia di norma non si preservano le parti grosse (prosciutto, spalla, coppa, pancetta), nella confinante Emilia proprio queste sono le parti privilegiate per la stagionatura.

Questi due metodi di lavoro fanno sì che ne derivino prodotti fondamentalmente diversi: da un suino di peso medio nel Cremonese si ottengono circa 60 kg di salame e circa 28 kg di cotechino, mentre in Emilia si salano invece 2 coppe, la pancetta, le spalle, i culatelli o prosciutti, utilizzando i pochi ritagli per fare solo qualche salame.

Questo diverso utilizzo delle carni è dovuto anche al clima del luogo in cui l’insaccato viene riposto per la stagionatura. Nel Cremonese l’ambiente umido favorisce ed esalta la stagionatura dei salami e dei cotechini che, specie in passato, rappresentavano per le povere famiglie contadine piene di bocche da sfamare una consistente riserva alimentare con la quale si riusciva a passare l’inverno. Per esse il maiale era una sorta di libretto di risparmio, un accantonamento che dava un po’ di sicurezza».

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Sembra facile, ovvero lontano da Cremona è un’altra cosa...

Negli anni Settanta del secolo scorso (fa un po’ effetto scrivere così, ma siamo da tempo nel Duemila…) Ugo Tognazzi, che pur vivendo lontano da Cremona sempre l’ebbe nel cuore, pubblicò un libro – Il Rigettario – nel quale le ricette di cucina si intrecciano a ricordi autobiografici. Rievoca, ad esempio, con nostalgia il profumo e i sapori dei prodotti del maiale, il prezioso animale, che i suoi nonni, di origine contadina, non gli facevano mai mancare e racconta quel che gli successe quando tentò di ricreare la magia di quegli aromi e di quei sapori producendo lui stesso salumi cremonesi a Roma. Comprò al mercato di Velletri un maialino, lo fece castrare perché ingrassasse meglio, lo fece macellare e lavorò lui personalmente le carni: il risultato fu disastroso. Tentò di nuovo, e la situazione migliorò di poco. Decise allora di far venire dal nord un bravo norcino, naturalmente mandandolo a prendere in automobile perché non si poteva farlo viaggiare in treno con una valigia piena dei coltelli occorrenti alla bisogna... Il lavoro sembrò perfetto, ma il risultato fu ugualmente fallimentare a causa della stagionatura mal riuscita, avvenuta nella sua cantina: metà dei prodotti sono da buttare, ed i superstiti, di qualità non eccelsa, sono costati quanto un corrispondente peso di caviale e champagne. Il quarto tentativo alla fine riuscì, ma solo perché il norcino si portò al nord, stivandoli nella giardinetta famigliare, cotechini, salami e salsicce: una scena da teatro epico contadino la definisce Tognazzi. I salami riuscirono bene, ma non erano eccezionali perché, sentenziò il norcino: «l’animale non è stato allevato come dalle nostre parti, senza mangimi cioè, ma con certi prodotti come la crusca unita alle rape che vengon su spontaneamente dalla terra...». Così Tognazzi imparò, a sue spese, che la bontà di un insaccato dipende da tante cose: dalla genuinità del prodotto, da ciò che ha mangiato il maiale, dalla qualità delle carni usate, dall’accuratezza della confezione e dalla stagionatura. Tutti elementi che concorrono a determinare la bontà del salame Cremona.

Da Ugo TOGNAZZI, Il Rigettario - Fatti misfatti e menu disegnati al pennarello, Milano 1978.

Insaccati tipici

Oltre al salame classico da taglio, questi sono gli insaccati caratteristici del territorio di Cremona ottenuti con la lavorazione della carne di maiale:

• salame con filetto, durante la sua lavorazione si introduce all’interno del salame un filetto di maiale salato e aromatizzato;

• salame da pentola, insaccato delicatissimo di carne magra e grasso di pancetta; è destinato alla bollitura per il tre brodi dei marubini ed è uno dei componenti del Gran bollito cremonese;

• cotechino cremonese vaniglia, di carne magra, grasso e cotenne, così definito da una lirica folgorazione di Corrado Barberis, estasiato dalla dolcezza dell’insaccato, che – a differenza del cotechino alla vaniglia, preparato nel Casalasco e nel Basso Mantovano – non ha traccia alcuna di vaniglia;

• cotechino con lingua, durante l’insaccatura viene inserita anche una lingua di maiale precedentemente salmistrata;

testüs, nell’impasto di base del cotechino viene aggiunto, al momento dell’insaccatura nel budello parte della testa del suino tagliata a pezzetti della grandezza di un francobollo;

• salsiccia, insaccato fresco, destinato all’uso immediato, per il quale si usano le carni di manzo dal colore più vivo e grasso suino; viene confezionato in sottili budelli di capra con aggiunta di formaggio grana: con essa si cucinano i cremonesissimi butòon de pajas;

• verzini, salamini di impasto più fine aromatizzati all’aglio, destinati a cotture veloci alla griglia o con le verze;

• cotiche, non sono certo tipiche di Cremona, ma sono qui citate perché con esse si cucina il piatto tipico fagiolini e cotiche, che in passato veniva offerto gratuitamente nel giorno dei morti dagli osti ai propri clienti per riscaldarli all’uscita dal cimitero.

 

I salumi tipici di Cremona nell’Atlante INSOR

Cotechino cremonese, carne magra, grasso e cotenne; prende il nome di ciüta quando è insaccato nell’intestino cieco e di testüs quando all’impasto si aggiungono piccoli pezzetti della testa.

Cotechino cremonese alla vaniglia, alla composizione del cotechino classico si aggiunge una piccola quantità di vaniglia.

Salame da pentola di Cremona, carne magra, grasso di pancetta; destinato alla bollitura: per il tre brodi dei marubini e per il Granbollito cremonese.

Salamelle di Cremona, carne magra, grasso di pancetta, salate e aromatizzate, del peso di 150 gr circa.

Verzini, salamelle più piccole,con l’impasto tritato più finemente e l’aggiunta di aromi e aglio, destinate alla griglia o ala cottura con le verze.

Salsiccia di Cremona, carne di manzo e grasso suino insaccati in budello di capra o maiale con aggiunta di provolone.

Dal volume L’Italia della carne di maiale, Istituto nazionale di Sociologia rurale, Atlante dei prodotti tipici: i salumi, ed. Franco Angeli, Milano 1989.