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La cucina di casa: testimonianze e ricette

Di un certo interesse sono alcune dirette testimonianze sulle ricette di casa, da me raccolte fra persone che hanno vissuto nelle campagne del Cremonese e che sono in genere legate all’uccisione del maiale, uno dei grandi eventi della vita contadina.

Sono state in parte pubblicate nel libro I Cremonesi a Tavola (14) ed in parte inedite.

Pina Beltrami

Dopo S. Lucia si uccideva il maiale allevato in cascina con tanta cura. Fin dalle cinque del mattino si sentivano le grida della bestia agonizzante sotto i colpi inferti al cuore dal norcino.

Appena ucciso il maiale veniva lavato con acqua bollente e raschiato per togliere le setole, poi issato su due pali legato per le zampe anteriori e tagliato a metà per raccogliere il sangue utilizzato nella preparazione della torta di maiale, una pietanza prelibata. Le varie parti di carne erano macinate per fare salami, cotechini e salamelle che venivano insaccate nelle budella dell’animale.

Toccava alle donne lavarle accuratamente con acqua e aceto, tagliarle a misura e cucirle. Quel giorno il pranzo per la famiglia e per gli aiutanti consisteva nella minestra di riso con impasto fresco di salame e in qualche pezzo di carne magra (che la mamma sottraeva al norcino) cucinato con salvia e vino bianco. Non mancavano le ossa, i piedini fumanti e i nervetti cotti e conditi con aglio e prezzemolo. A ognuno veniva regalata la sua parte di ossa per la cena. Le cotenne avanzate venivano cucinate con i fagiolini dell’occhio e il lardo, preparato a strati, veniva ricoperto di sale grosso. Era gustoso da assaporare, ben rosolato, nelle sere d’inverno.

I cotechini accompagnati dal purè venivano consumati in fretta perché non invecchiassero troppo. Nel Cremonese non si preparano pancette, coppe, prosciutti ma tutte le parti del maiale vengono tritate e finiscono nell’impasto dei cotechini e dei salami, ed è per questo che quelli cremonesi sono così buoni.

 

Iris

Il giorno dell’uccisione del maiale si mangiava a mezzogiorno una minestra di riso e verze ottenuta soffriggendo nel lardo fresco, battuto a coltello con un po’ di cipolla, una bella verza tagliata a striscioline sottili. Quando questa era ben appassita si aggiungeva acqua salata (o brodo in cui si era cotto qualche osso di maiale) e dopo mezz’ora di bollitura si aggiungeva un pugno di riso per commensale. Come secondo, in casa mia si mangiava sangue di maiale rappreso, tagliato a losanghe sottili, fritto nel lardo fresco fuso, con abbondante corredo di cipolle.

A cena si faceva un risotto con il brodo di cottura delle ossa, cipolla, carota, sedano e uno spicchio d’aglio. Lo si insaporiva con il pesto fresco delle salamelle e lo si gustava ben spolverato di formaggio. Infine si mangiavano le ossa fumanti ed insaporite dal sale grosso: in dialetto scotadit.

 

Fulvio Scolari

L’uccisione del maiale era occasione di festa anche gastronomica: mentre la maggior parte dell’animale macellato veniva lavorato per ottenere tagli di carne (filetto, lonza, braciole, costine) da cucinare fresca e per preparare salumi e insaccati da conservare e utilizzare via via nel corso dell’anno, alcune poche parti dell’animale venivano cucinate subito e consumate in allegria da chi aveva partecipato alle operazioni. Il maiale era una grande risorsa e forniva oltre a condimenti come il lardo e lo strutto con i quali si cucinava tutto l’anno, una importante riserva di viveri in un periodo come quello invernale, durante il quale la campagna dava poco o nulla, le galline facevano poche uova e dall’orto si ricavavano solo verze e rape. Del maiale non veniva buttato via nulla, neppure il sangue col quale si usava fare una specie di sanguinaccio dolce che si consumava appena fatto, con il pane. Le carni o le costine si mangiavano con contorni a base di verze, peperoni sotto aceto o quanto altro si era preparato in conserva, accompagnando questi cibi saporiti con abbondante pane bianco e vino nero.

 

Teresa Robecchi Abitanti

Con le ossa si faceva il brodo, poi si succhiavano ben calde, insaporite di sale. Nel brodo si cuocevano il riso e le verze. A cena si preparava il fegato di maiale con la sua rete e le cipolle, si cuoceva la polenta e si mangiavano di gusto. Il giorno dopo si preparava la torta di maiale che si preferiva accompagnata dalla polenta abbrustolita.

 

Valeria Pini

Nella stagione invernale abbondava la carne suina […] e la nostra alimentazione cambiava. Si passava a salsicce, costine, braciole, ciccioli che venivano fatti con il grasso. Intanto salami, pancette e prosciutti stagionavano e la mamma li comperava dal salumiere. A fine novembre un piatto prelibato era il piatto unico: una minestra fatta con riso verze e pesto di maiale.

 

Marisa Giazzi

Avevamo l’abitudine di comperare un maialino piccolo, poi il papà lo cresceva nutrendolo con farina gialla e crusca diluite nell’acqua bollente in modo da fare una polentina liquida, così il maiale mangiava e beveva insieme. Gli si dava qualche avanzo, ma non avanzavamo quasi mai niente. Alla fine veniva el masadùur ed era straziante l’urlo del maiale che moriva; faceva una gran pena vederlo appeso per le gambe a una scala, con la testa in giù perchè uscisse tutto il sangue; gli facevano anche un buco nel collo perché si vuotasse meglio. Con questo sangue si faceva una torta e la si dava alle donne impegnate a cucire le budella per fare i salami. Non si buttava via niente del maiale. Si diluiva il suo grasso in una pentola e vi si mettevano dentro, per conservarli per tutto l’inverno, cuore e fegato tagliati a pezzetti.

 

Mara Sartori Bellometti

In febbraio si uccideva il maiale e per una intera giornata tutti erano coinvolti. Nella stalla, al caldo, le donne cucinavano i budelli per i salami, gli uomini preparavano il fuoco per scaldare l’acqua, in cucina veniva approntato il baldacchino per asciugare i salami e stagionarli. Il pranzo tradizionale consisteva nelle verze matte (riso con verze e pistöm, ossia il ripieno del salame). Ricordo la giacca a righe rosse del norcino, il suo viso rubicondo e il profumo delle spezie che venivano impastate con la carne di maiale macinata.

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Pina Ardenghi

L’àrista (dal greco aristos, il migliore) è la parte migliore dell’animale, è la parte della schiena, comprendente ossa e polpa (lonza è la parte disossata). La mamma la marinava per qualche ora, poi la metteva in forno ben bagnata di latte. La rivoltava ogni mezz’ora perché si bagnasse tutta con il latte e, dopo due ore, era pronta, ben cotta nel suo sugo denso di color bianco bruno. Era buonissimo anche lo stinco di maiale, tagliato per il lungo in due parti, poi marinato per qualche ora con salvia, rosmarino, pepe, sale e un po’ di cannella. Cuoceva poi in forno o sul fuoco, bagnato con molto vino bianco.

 

Ed ora due testimonianze d’autore, ma perfettamente consonanti con quelle da me raccolte.

Vincenzina Zanotti

Sotto la testa penzolante dell’animale si andava riempiendo un bacile di sangue color mattone, subito accaparrato dal vecchio Siro che lo portò in cucina. Là il camino era acceso e nel paiolo fu versato il sangue che fu rimestato lentamente e mescolato ad aromi penetranti e a farina bianca. Ne uscì una polentina semiliquida dal colore violaceo che versata su una teglia si rassodò: la si poteva tagliare a fette e mangiare a cucchiaiate… Il lardo salato e pepato faceva bella mostra su un’asse, disteso come una trapunta a strisce bianche e rosa. Accanto c’era la vescica, grossa palla riempita di sugna che serviva poi per condire i minestroni invernali e per fare il battuto con il prezzemolo. E c’erano anche i salamini per i ragazzi, che si mangiavano a merenda con il pan biscotto. Il nonno teneva per sé i pezzetti di lardo a forma di bocconcini che faceva sfrigolare nella padella di ferro e gustava poi con la polenta. La polenta e ciccioli era quella e la si gustava durante la cena del giorno dei Santi…

(da L’uccisione del maiale, in «Cremona produce» 6, 2005).

 

Lydia Visioli Galetti

Il pesto cremonese (la pistàada de làart) si ottiene tritando finemente lardo, prezzemolo, aglio in quantità diverse secondo i gusti della resdora. Il ticchettio della mezzaluna, che si poteva udire anche nell’aia, denunciava l’operosità delle brave massaie che si mettevano all’opera presto il mattino, o la pigrizia di chi iniziava nella tarda mattinata. Il pesto si metteva, per darvi sapore, nelle minestre, negli intingoli e nei piatti che richiedevano cotture prolungate, in quantità proporzionata al numero dei commensali e alla qualità del cibo: tanto nella trippa e nella minestra di fagioli, poco nel brodo di carne… Per colazione molti contadini spalmavano la pistàada sulla polenta abbrustolita.

Con lo strutto, in cui si sono cotte molte cipolle tagliate finemente, si cuoce la torta di maiale fatta di sangue, latte e un cucchiaio di farina. Dopo un quarto d’ora di cottura è pronta: ha un sapore delicato e particolare ed è molto morbida.

Le braciole di maiale fritte sono un altro buon piatto della cucina cremonese. Si mette molto strutto in una padella e vi si fa rosolare dell’aglio con qualche foglia di salvia , poi si immergono le braciole per qualche minuto finché assumono un colore dorato. Sgocciolate velocemente su un foglio di carta vanno servite molto calde.

(da Cui pèe etc., op. cit., p. 65)

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